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I donor fanno un passo verso la localizzazione dell’aiuto, e l’Italia?

A livello internazionale nel mondo dello sviluppo e dell’assistenza umanitaria c’è ormai un certo consenso sul fatto che i finanziamenti e le dinamiche di cooperazione debbano rispondere maggiormente ai bisogni e alle priorità degli attori e delle comunità locali e debbano in qualche modo essere progressivamente guidate dal loco già dalla fase di ideazione e progettazione. Le esperienze esaminate a livello internazionale hanno dimostrato che la leadership locale garantisce più equità, efficacia e sostenibilità e restituisce senso alla dinamica di cooperazione tra i donatori e le persone, le istituzioni e le comunità che affrontano e sono influenzate da queste sfide ogni giorno.

In questo percorso i donatori sono l’attore principale, non è possibile un cambiamento di dinamica senza un’attivazione delle istituzioni che a livello internazionale compongono il sistema dell’aiuto allo sviluppo.  Questi devono per primi riconoscere e rispettare la dignità, l’agire, le priorità, le conoscenze, i diritti e le aspirazioni di quelle persone e comunità che oggi vengono chiamati “beneficiari” o “recipients” dell’aiuto. Sono in primis i donatori che devono mobilitare il loro potere di influenza globale, la capacità di costruire partnership e alleanze e gli altri strumenti della diplomazia internazionale per avviare un cambiamento repentino verso un modello di sviluppo guidato a livello locale.

La cosiddetta localizzazione necessita un insieme di riforme interne, cambiamenti comportamentali e organizzativi che si possono riassumere in quattro principali assi di impegno:

  • Adattare politiche e programmi per promuovere lo sviluppo guidato a livello locale che siano strettamente legate alle condizioni politiche, sociali, culturali, economiche e ambientali uniche di ciascun paese, anche attraverso la pratica dei sistemi locali e il rafforzamento delle capacità locali;
  • Spostare il potere sugli attori locali, compresi, con una prospettiva di sviluppo inclusivo, quelli appartenenti a gruppi emarginati e sottorappresentati, e promuovere loro lo spazio per influenzare ed esercitare la leadership sulla definizione delle priorità, sulla progettazione e attuazione delle attività e sulla misurazione e valutazione dei risultati;
  • Convogliare una parte maggiore dei finanziamenti direttamente ai partner locali, garantendo al contempo la responsabilità per l’uso appropriato dei fondi e il raggiungimento di risultati umanitari e di sviluppo;
  • Agire da sostenitore globale e leader di questo approccio, usando l’influenza globale e gli altri strumenti della diplomazia internazionale o per realizzare un cambiamento verso lo sviluppo guidato a livello locale.

Queste azioni si basano su impegni che la comunità internazionale ha già condiviso nella Dichiarazione di Parigi (2005), nel Partenariato di Busan per un’efficace cooperazione allo sviluppo (2011), nell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile (2015) , il Grand Bargain (2016), il Grand Bargain 2.0 (2021), la Raccomandazione OCSE-DAC sull’abilitazione della società civile nella cooperazione allo sviluppo e nell’assistenza umanitaria (2021) e i Principi di adattamento a guida locale (2021).

L’ultimo passaggio di questo processo, forse portato avanti fino ad ora in maniera troppo debole e accessoria, è rappresentato dal “Donor Statement on Supporting Locally Led Development” sottoscritto in Svizzera alla fine del 2022 durante l’Effective Development Cooperation Summit di Geneva.

I principi di quest’ultima dichiarazione dei donatori sono apparsi positivi: spostare e condividere il potere per garantire che gli attori locali abbiano la proprietà, incanalare i finanziamenti nel modo più diretto possibile e sostenere pubblicamente lo sviluppo guidato a livello locale. Tuttavia, la dichiarazione ha anche riconosciuto che queste azioni si basano su dichiarazioni e affermazioni simili fatte dal 2005, quasi due decenni fa ormai.

Secondo molti rappresentati della società civile coinvolti nella cooperazione è necessario un cambiamento più trasformativo e orientato all’azione se vogliamo vedere queste affermazioni concretizzarsi nella pratica. Ma queste ultime dichiarazioni sottoscritte potrebbero rappresentare davvero il momento per il cambiamento atteso da tempo nelle dinamiche di finanziamento dello sviluppo internazionale perché iniziano a coinvolgere un numero rilevante di grandi donatori.

Di seguito i donatori che hanno approvato questa dichiarazione: Australia; Canada; Danimarca; Estonia; Francia; Islanda; Irlanda; Giappone; il Ministero degli Affari Esteri della Repubblica di Corea; il Ministero degli Affari Esteri della Repubblica di Lituania; Paesi Bassi; Norvegia; Slovenia; la Cooperazione Spagnola allo Sviluppo; Svezia; l’Agenzia svizzera per lo sviluppo e la cooperazione; l’ufficio per gli affari esteri, il Commonwealth e lo sviluppo del Regno Unito; e l’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale.

E l’Italia? Manca sicuramente all’appello ma non solo nella firma di questa dichiarazione. Il dibattito su questi temi fatica a decollare e a entrare in una dimensione strategica, non se ne vede traccia infatti nei documenti programmatici della Cooperazione Italiana e tanto meno nella narrazione degli attori statuali italiani coinvolti, in primis MAECI e AICS.

Eppure il governo, nella lunga fase di elaborazione del futuro Piano Mattei per l’Africa, per bocca della premier Meloni promette una cooperazione tra pari con i paesi africani e del Vicino Oriente, una nuova fase in cui l’Italia si mette in ascolto delle esigenze locali e promette un “modello di cooperazione non predatorio in cui entrambi i partner devono poter crescere e migliorare creando catene di valore e aiutando le nazioni africane a vivere meglio delle risorse che hanno a loro disposizione”.

Quale modo migliore per le nostre istituzioni di costruire questo nuovo modello che non iniziare a partecipare in modo fattivo ai consessi internazionali che lo stanno disegnando e a sottoscriverne gli impegni?


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