Lo scorso 20 febbraio il Comitato Congiunto ha approvato una delibera riguardante la prima iniziativa dell’Agenzia a favore del settore privato profit nella cooperazione allo sviluppo. Si tratta di un bando con dotazione di 5 milioni di euro per supportare idee innovative per lo sviluppo: imprese sociali e business inclusivo a servizio della cooperazione. Il bando, in uscita nei prossimi mesi, è destinato al settore privato italiano sociale e for profit e prevede il co-finanziamento di azioni di cooperazione da svolgere nei paesi partner. Secondo quanto precedentemente indicato dai funzionari dell’AICS l’iniziativa conterrebbe tre tipologie di progettualità finanziabili: i cosidetti seed capital (primi fondi cui un imprenditore accede per lanciare una nuova attività ), le start up (una nuova impresa nelle forme di organizzazione temporanea o una società di capitali in cerca di un business model ripetibile e scalabile) e lo scaling up (sviluppo su scala più ampia di attività imprenditoriali già sperimentate con successo).
Ma quali aziende, società, cooperative potranno partecipare a questo bando per il settore privato profit? Alcuni dubbi sembrano chiarirsi mentre se ne aprono di nuovi. L’AICS sembrerebbe intenzionata a prendere spunto dai criteri di eleggibilità suggeriti dal Gruppo di Lavoro dedicato del Consiglio Nazionale che durante il 2016 ha dedicato diversi incontri alla stesura dei criteri per i soggetti privati profit ai sensi dell’art. 27 l. 125/2014. In particolare sarebbero tre i riferimenti internazionali più importanti a cui le imprese si dovrebbero attenere per poter avere accesso a co-finanziamenti pubblici per la cooperazione allo sviluppo:
- adesione formale al Global Compact delle Nazioni Unite
- osservazione della dichiarazione tripartita di principi sulle imprese multinazionali dell’ILO
- osservazione delle linee guida OCSE destinate alle imprese multinazionali
Questi tre riferimenti nel diritto internazionale vengono comunemente definiti come soft law poiché non sono vincolanti (non-binding cioè non obbligatorie) a differenza dei normali trattati internazionali che hanno di solito un valore vincolante (binding) e vengono definiti hard law. Ma vediamo più nello specifico di cosa si tratta e come le imprese possono dimostrare l’adesione e/o l’osservanza di questi criteri.
Il Global Compact
E’ un’iniziativa varata nel 1999 dell’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, durante il Forum Economico di Davos. Accogliendo l’invito di Kofi Annan di sottoscrivere con le Nazioni Unite «un Patto Globale di principi e valori condivisi» per dare «un volto umano al mercato globale», grandi società multinazionali, istituzioni pubbliche e private e organizzazioni della società civile si sono riunite nel 2000 a New York per adottare i Principi del Global Compact. Si tratta di 10 Principi di voluntary corporate responsibility riguardanti aspetti legati ai diritti umani, lavoro, ambiente e lotta alla corruzione, cui hanno successivamente aderito oltre 9000 imprese, istituzioni ed associazioni della maggior parte dei Paesi del mondo.
Le aziende italiane che hanno aderito al Global Compact negli ultimi 15 anni sono 139 di cui 81 sono piccole o medie imprese. Una trentina di imprese edili, circa 20 del settore metalmeccanico e dei servizi, una decina di multi utility, altrettante del settore energetico/petrolifero, alcune banche e le multinazionali italiane del food.
Per aderire al Global Compact è sufficiente una lettera firmata dal legale rappresentante dell’azienda che dichiara di aderire ai principi prefissati e si obbliga a intervalli regolari a inviare una COP (Communication On Progress), un breve report che dettaglia gli sforzi messi in campo dall’azienda per soddisfare i 10 principi volontari. Le aziende che non inviano i regolari report vengono messe in stand by. E’ questo il caso di 20 delle 139 aziende italiane iscritte.
Leggi i 10 principi del Global Compact
La Dichiarazione Tripartita dei Principi Relativi alle Società Multinazionali e alla Politica Sociale
Adottata dal Consiglio di Amministrazione dell’ILO nel 1977 ed aggiornata da ultimo nel 2006, ha condensato i principi generali sui diritti dei lavoratori, destinati alle imprese, ai Governi, ai datori di lavoro e ai lavoratori. Essi riguardano l’occupazione, la formazione, la libertà di associazione, la tutela della salute, nonché le principali condizioni da assicurare ai lavoratori. Benché tali principi siano contenuti in un atto di per sé non obbligatorio, non si deve dimenticare che essi derivano dalle molte Convenzioni promosse dall’ILO in materia di lavoro che sono invece atti giuridicamente vincolanti.
Per monitorare l’osservanza dei principi enunciati nella Dichiarazione, l’Ufficio Internazionale del Lavoro dell’OIL conduce un’inchiesta periodica attraverso una consultazione di governi e parti sociali. Le risposte ricevute verranno poi esaminate in seno ad un gruppo di lavoro tripartito che una volta elaborato un documento lo sottoporrà al Consiglio di amministrazione per la discussione e l’approvazione finale. Il Consiglio dell’OIL potrà, se del caso, emanare raccomandazioni. L’ILO non giudica la condotta di specifiche imprese né, tanto meno, è in grado di fornire alcun rimedio effettivo alle vittime. L’identità delle stesse imprese coinvolte resta strettamente confidenziale e i procedimenti di disputa durano anni.
Le Linee guida OCSE destinate alle imprese multinazionali
Sono raccomandazioni (principi e standard volontari) rivolte dai Governi firmatari della Dichiarazione OCSE del 1976 alle imprese multinazionali perché abbiano «un comportamento responsabile nella conduzione delle attività imprenditoriali, conforme alle leggi vigenti e alle norme riconosciute a livello internazionale», contribuendo in tal modo al progresso, economico, ambientale e sociale. Nella versione del 2011, le Guidelines dedicano un intero capitolo alla tutela dei diritti umani e confermano il dovere degli Stati di tutelare i diritti umani, affermando però anche che «le imprese dovrebbero» comportarsi in modo da «prevenire o mitigare l’impatto negativo sui diritti umani» adottando «una politica che le impegni al rispetto» degli stessi, utilizzando a tal fine processi di due diligence e ponendo eventualmente rimedio alle violazioni dei diritti umani che le vedessero coinvolte.
Le Linee Guida prevedono inoltre la creazione a livello nazionale dei National Contact Points ai quali possono fare riferimento i soggetti che si ritengano danneggiati da violazioni di diritti umani attribuibili alle imprese. In Italia il Punto di Contatto è stabilito presso il ministero dello Sviluppo Economico. E’ questa l’entità che prende in esame eventuali istanze sottoposte per presunte violazioni dei principi da parte di aziende.
L’eleggibilità delle imprese povrebbe venir meno a seguito di una controversia segnalata al Punto di Contatto che pure non ha potere di prendere nessuna decisione vincolante ma si limita a segnalare i casi in una cosiddetta blacklist e all’interno dei rapporto periodici.
L’AICS prevede l’organizzazione di alcune giornate d’informazione su questo bando da realizzare tra aprile e maggio con l’intento di entrare in contatto con potenziali attori del settore privato profit interessati a partecipare al bando.
come può partecipare una piccola Associazione Onlus che non ha esperienze a questo livello?
è possibile partecipare ad una rete di imprese profit e no-profit?
come può partecipare una piccola azienda italiana, anche se non ha capitali per investimenti all’estero ma tanta esperienza operativa?
mi interessa partecipare ad un progetto che coinvolga la nostra corrispondente ASEM Mozambico, con Centri a Beira, Gorongosa e Vilankulo.