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Addio quadro logico, i progetti devono adattarsi alla realtà

L’ODI (Overseas Development Institute) ha recentemente pubblicato un interessante rapporto, dal titolo: “Adaptive Development – Improving Services to the Poor”. Lo studio afferma la necessità di fare cooperazione allo sviluppo in modo diverso. Le attivita’ di cooperazione avvengono infatti in contesti complessi e sono condizionate da un gran numero di variabili e dinamiche politiche, che possono fortemente influenzare le attivita’ inizialmente pianificate. La narrazione dominante che pone l’enfasi sulla pianificazione e sul design dei progetti di cooperazione, ci sta portando lontano dallo scopo principale, che è quello di fornire servizi utili e di qualità alle comunità.

 

Il rapporto prende spunto dalla discussione sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG), in sostituzione degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDG) “in scadenza” nel 2015. Gli MDG hanno prodotto alcuni importanti successi, ma il raggiungimento di alcuni obiettivi, in particolare per le categorie piu’ vulnerabili, e’ancora molto lontano. Perche’ siano veramente efficaci, gli SDG devono essere diversi. Come spiegato nel documento (pag. 8):

 

“[…] L’anello mancante nella discussione post-2015 è stato finora l’assenza di una vera discussione sui metodi necessari per rendere effettivo qualsiasi nuovo quadro di riferimento. Va posta piu’ attenzione su come i riformatori locali affrontino specifici problemi per determinare progressi in contesti che sono spesso politicamente difficili, complessi e incerti. Per gli attori esterni, significa acquisire una migliore comprensione delle ragioni storiche e delle dinamiche attuali, lavorando su come sostenere gli attori nazionali che possono guidare il cambiamento.. ”

 

Affinché gli SDGs possano avere successo, ODI suggerisce di (pag. 9):

  • Iniziare con i problemi, non con le soluzioni gia’ pronte.
  • Comprendere la politica e occuparsene.
  • Sostenere le riforme che nascono dal basso.
  • Non aver paura di provare, fallire e riprovare.
  • Pensare come un imprenditore: dividere i rischi, fare piccole scommesse.

 

In termini di metodologia questo si traduce in un nuovo modo di lavorare, che dovrebbe concentrarsi maggiormente sul monitoraggio e meno sulla pianificazione. Un metodo di lavoro che sia in grado di apprendere, adattarsi e cambiare in corso d’opera. In alternativa ad un approccio rigido all’insegna di Logical Frameworks, soluzioni gia’ pronte e diagrammi di Gaant, i progetti di sviluppo dovrebbero essere flessibili e capaci di adattarsi continuamente al contesto.

 

A questo riguardo il settore privato puo essere un’utile fonte di apprendimento. Come detto nel corso di una presentazione del progetto Pyoepin, uno dei più riusciti esempi di “Adaptive Development” in Myanmar: “se le imprese private dovessero seguire i Logical Framework e valutare le proprie performnce dopo tre o quattro anni, sarebbero tutte fallite” . Le imprese private hanno imparato ad adattarsi, cosi’ da adeguare i loro servizi e i loro prodotti a mercati e contesti in continua evoluzione.

 

L’argomento è molto forte. Prima di saltare a conclusioni affrettate va considerata pero’ una differenza molto importante. Le imprese private hanno incentivi fortissimi ad adattarsi al mercato e a contesti in rapida evoluzione, per la semplice ragione che devono soddisfare la domanda dei propri clienti.

Nel caso della Cooperazione allo sviluppo, gli utenti o destinatari dei servizi, non sono coloro che pagano. Gli attori di Cooperazione (ONG, ONU, donatori, ecc) sono intrappolati in una relazione di potere squilibrata in cui i destinatari dei servizi sono sempre l’anello più debole della catena.

Se dobbiamo comprendere la politica, dobbiamo anche riconoscere che lo sviluppo stesso è soggetto a dinamiche politiche ed e’ sensibile ai diversi rapporti di potere tra i donatori, gli esecutori e gli utenti.

 

Dal settore privato possiamo imparare non solo come adattarci ad un contesto in continuo cambiamento, ma anche come collaborare, creare sinergie e ottenere una relazione più diretta tra fornitore di servizi e cliente.

Le società di telecomunicazioni ne sono un esempio interessante. In Myanmar Telenor e Ooreedoo sono entrambe alla ricerca di collaborazioni con attori di Cooperazione non per offrire finanziamenti (come le ONG probabilmente preferirebbero), ma per offrire ciò che sanno fare meglio: servizi di telefonia per i loro clienti.

Un servizio di Mobile-Agricolture per esempio, attraverso il quale vengono fornite previsioni meteo e informazioni sui prezzi di mercato agli agricoltori, è senz’altro un buon modo per le compagnie telefoniche di espandere la loro base clienti, ma è anche un grande servizio che potrebbe migliorare la vita delle comunita’ nelle zone rurali. Dal momento che il successo delle imprese private dipende dalla soddisfazione dei loro clienti, le imprese avranno un forte stimolo a fornire il miglior servizio possibile agli agricoltori.

 

Le collaborazioni tra gli attori di Cooperazione e le imprese private dovrebbero fondarsi su cio’ che ciascuno sa fare meglio e non sulla replica della relazione: donatore – esecutore – utente.

(leggi l’articolo in inglese Adaptive Development – What can we learn from the Private Sector?)

 

 


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  1. Mi sembra improprio contrapporre il nuovo approccio al logical framework approch. Infatti anche questo propone di
    -Partire dai problemi e non dalle soluzioni,
    -considerare tutti i fattori esteri politica compresa.
    Poi la cooperazione, almeno quella delle Ong da anni sostiene le riforme che nascono dal basso.
    Non ha paura di provare, fallire e riprovare.
    Invece non pensa come un imprenditore e questo fa la differenza.

    Non mi sembra una grande novità.
    Giancarlo Malavolti

    1. Concordo. L’articolo propone poco di nuovo. Indubbiamente occorrono riflessioni sulle modalità operative della cooperazione, ma gli elementi su cui ragionare sono ben noti da tempo.

  2. Penso che il punto non sia propriamente lo strumento che si utilizza, anche se lo strumento è comunque espressione di una logica. Il quadro logico è lo strumento della progettazione logico-razionale, la quale si contrappone all’approccio euristico-dialogico-incrementale (la “letteratura” della progettazione, così giovane, usa tanti nomi diversi per indicare la stessa cosa). Non è una novità sul piano della “storia della progettazione” che già negli anni ’90 aveva teorizzato e formalizzato le due, contrapposte, posizioni idealtipiche. Potrebbe essere effettivamente qualcosa di nuovo se la logica della progettazione e le modalità di implementazione degli interventi dovessero effettivamente cambiare, rinunciando al bisogno di dire, con anni di anticipo e rispetto a sistemi complessi, quali saranno gli obiettivi, i risultati e le attività e come il tutto sarà puntualmente misurato.

  3. Finalmente qualcosa si muove in relazione agli strumenti della progettazione e alla necessaria revisione del logical framework che fino ad ora tutti utilizzano come metodo di lavoro. Lo strumento principe della progettazione ha sicuramente il suo punto di forza nell’organizzare in sequenze logiche lo sviluppo dell’idea /proposta progettuale. Mal si adatta in relazione ai tempi, alla variabilità dei contesti, alla bassa predeterminazione delle attività e al fatto che comunque le variabili intervenienti nei contesti in cui interveniamo non sono mai statiche e prevedibili. Per cui ben venga uno strumento di progettazione dinamica che meglio si adatti alla realtà.

    1. Rendere flessibile lo strumento, anziché eliminarlo… non ci dimentichiamo per quale motivo i Logical Frameworks furono introdotti..

      Pressochè chiunque può scrivere e implementare un progetto senza costruire un LF, così come chiunque può fare l’imprenditore senza un business plan.
      alla fine però viene la valutazione dei risultati in termini di qualità, quantità, coerenza, tempi di realizzazione.
      e se vogliamo anche adattamento al contesto (solo però nel caso esso sia variato tra il momento della rilevazione dei bisogni e quello l’implementazione delle attività… altrimenti non c’è necessità di adattamento, solo di coerenza e ordine mentale).

      un PM esperto sa sicuramente realizzare un progetto senza un LF formalizzato (probabilmente avrà tutto in testa), ma un junior senza avere una bussola ne uscirà confuso.

      diciamo che i Logical Framework possono probabilmente essere eliminati da un certo livello di competenza in poi… come misurare questa competenza è tutto un altro argomento.

    2. vorrei fare alcune considerazioni.

      1. L’ODI scrive nel suo rapporto: “Il cambiamento avviene in modi inaspettati e ogni situazione è differente”. A parte l’evidente omaggio al concetto di “hidden hand”, direi che la flessibilità nella progettazione, come in tutte le altre fasi del ciclo dello sviluppo, non è adattamento alla realtà come si legge nel titolo dell’articolo italiano ma volontà di cambiare la realtà della diseguaglianza(formulando obiettivi e risultati)con attenzione all’apprendimento e all’imprevisto.Aggiungo che non condivido quello che scrive Umberto circa la non prevedibiltà delle variabili, molte sono per fortuna parte della capitalizzazione dell’esperienza internazionale e per progettare in modo rigoroso si devono studiare le esperienze positive e i fallimenti nel Paese e nel settore prima di prefigurare il futuro.

      2. Il riferiomento alla complessità del contesto e all’incertezza sono alla base di un modello logico (Teoria del cambiamento) sul quale da anni il DFID lavora, non in contrapposizione all’AQL come modello logico, ma per valorizzare , ad esempio , aspetti come le ipotesi, spazzate via dall’RBM, dove nella Matrice dei risultati non compaiono, nell’ansia di raggiungere risultati, oppure formulate in modo banalizzante nella Matrice del Quadro Logico.

      3. L’AQL , come metodo , può essere applicato in modo rigido (il blueprint dell’articolo dell’ODI) o flessibile e partecipativo. La ricerca dell’armonia tra approccio obiettivo/risultati e approccio- processo è da alcuni decennni alla base del dibattito sullo sviluppo e i suoi ritmi.

      4. Come ricordato da Giancarlo Malavolti,ONG e attori dello sviluppo pubblici perseguono obiettivi diversi dalle imprese. Aggiungo che la moda degli ultimi anni che vede Chevron e altre multinazionali magnificare con l’USAID il loro “sviluppo comunitario” in Nigeria (2011) oppure la fondazione Gates esaltare gli interventi di aziende agricole del Sud Africa impiantate in Tanzania (2014) oppure il MAE che propone partenariati improbabili con il settore privato non mi convince assolutamente,non seguo questa moda.

      Massimo Rossi

      1. Considerazioni molto chiare e interessanti e, a mio parere, più che condivisibili (punti 1-3). Sul punto 4 nutro anch’io perplessità ma non ho conoscenza diretta sufficiente per esprimere un parere fondato.
        Grazie per i chiari elementi portati in discussione.

  4. Mi sembra che l’articolo affronti l’argomento in modo eccessivamente semplicistico. E non è vero che le imprese non usino i Logical Frameworks, li chiamano solo in maniera differente.

    Approccio adattivo e Logical Frameworks non si escludono vicendevolmente, ma anzi dovrebbero essere integrati, garantendo ordine, coordinamento delle azioni e innovatività (se e quando serve, non a tutti i costi). In caso contrario l’approccio come descritto sopra sembra diventare la giustificazione a qualsiasi tipo di scelta e intervento (“i fattori contingenti ce lo hanno imposto…”), sganciando i singoli interventi non solo dalla prassi, ma anche dalle best practices, dalla razionalità e dal buon senso. Il rischio di degenerare in un approccio anarchico e casuale alla progettazione umanitaria mi pare parecchio probabile.

    Infine vorrei solo ricordare che la qualità delle risorse umane tra umanitario e profit è (in generale e salvo dovute eccezioni, ovviamente) differente almeno tanto quanto i salari percepiti dai loro managers. Eliminare un supporto di razionalità come i Logical Frameworks aiuterebbe come l’eliminazione dei software contabili aiuta la rendicontazione dei progetti di cooperazione.

  5. Leggo con interesse questo articolo e i commenti di esperti ONG e SQL.

    Dal mio punto di vista -come comunicatore formato nel profit, appassionato di CSR e corsista in materie no-profit terzo settore, dove mi pongo come obiettivo finale di fungere da consulente per definire azioni e progetti per una maggiore collaborazione tra le due realtà – ritengo che esse abbiano reciprocamente e rispettivamente da imparare le une dalle altre.

    Per quello che ho imparato,il SQL permette un’analisi di contesto e una progettazione ammirevole, e sarebbe un’opportunità inserirla nel mondo profit. La sfida dei delle ONG è per me che i finanziamenti a 4 anni non permettono molti cambiamenti a causa di una rendicontazione che deve essere meticolosa. Detto questo non è possibile pensare in progetti più brevi, ne di abolire SQL.

    Dalla mia esperienza profit in RSI, noto che si fa ancora molta filantropia o si parla di un avvio di RSI. Ma sono pochissimi i casi in cui accade una rivoluzione del business model adattato alla creazione di valore ambientale e sociale etico.

    Fintanto che le realtà no profit e no profit parlano come pari, con l’aiuto di istituzioni non guidate dalla sola politica, non sono certa che riusciamo a lavorare insieme per la sostenibilità – intesa come risultati win win per tutti gli stakeholder.

    La metologia SQL è una best practice che crea una base comune dalla quale dialogare e misurare i risultati e aggiungerei -con pochi bluff.

    Nel mondo profit e istituzionale, si riesce forse più facilmente a mascherare falsi risultati grazie ai cambiamenti repentini del management che pensa solo alla carriera e poco alla community?

    Elena Piani
    3460846579
    Elenapianinz@gmail.com

  6. Chi dice che bisogna adeguarsi per partire dai problemi anziché dalle soluzioni non ha chiaro il funzionamento del quadro logico. Per farlo si parte proprio dai problemi. In più il QL una volta fatto è suscettibile di adattamenti a seconda delle circostanze. la pubblicazione mi sa tanto faccia parte di quella serie di presunte novità sfornate da gruppi di lavoro che devono giustificare il fatto di esistere venendosene fuori con metodi di lavoro che sono innovative solo per gli acronimi usati.

  7. Sono quasi 20 anni che sentiamo le stesse sterili critiche al quadro logico (QL) che purtroppo nascono da chi il QL non ha mai veramente capito cosa sia e come si usi. Non si può giudicare uno strumento di comunicazione e pianificazione come responsabile dei cattivi prodotti che deve comunicare o pianificare. Non è un problema del metal detector se il contenuto della valigia che abbiamo messo sotto i raggi X non è quello sperato è un problema di chi ha riempito la valigia, di cosa ci ha messo dentro, di cosa voleva trasportare etc etc. Forse che i progetti fatti senza QL non hanno gli stessi problemi di quelli fatti con il QL. Come sempre non sono gli strumenti le cause nè le radici dei problemi ma le persone che li usano e come li usano. Se gli strumenti non vanno se ne creano dei nuovi, ma questo non è il punto!!!
    Io trovo grave (e su questo bisogna parlare) che i donors manchino di flessibilità a certe modifiche dei progetti in corso d’opera, che i meccanismi di correzione on going siano pesanti, lunghi e faticosi e i finanziatori siano troppo vincolati alle proposte originarie e ai budget, spendendo quasi nulla come energie in un sano monitoraggio sia di efficienza, sia di efficacia e soprattutto di contesto, che poco si fa e nessuno si sogna di richiedere, ma questo vale sia se i progetti sono presentati con il QL o con qualunque altro supporto. E’ la flessibilità ad un continuo aggiustamento del tiro il vero problema (che il settore privato non ha) e non lo strumento di presentazione del progetto. Peccato che dopo 20 anni si continui ancora a confondere mezzi e fini, strumenti e benefici con un pressapochismo ed una leggerezza semantica da brivido…

  8. Non mi pare che sia il “Quadro Logico” l’oggetto vero del documento quanto piuttosto gli “Obiettivi del Millennio” (MDGs).

    La critica è sulla “governance dello sviluppo” che fissa degli obiettivi come se non esistessero specificità politiche, sociali ed economiche nei paesi beneficiari…i cosiddetti obiettivi “ad capocchiam”!

    A pagina 12 si legge: “Both domestic reformers and their international partners should, therefore, consider spending less time on grand designs and more on tracking down specific problems and finding practical and politically smart ways to solve them.
    This is the central conclusion to which the authors of this report have been led by three years of applied research…”.

    Il documento “Adaptive Development – Improving Services to the Poor” tratta di approcci più realistici, reattivi e funzionali alle realtà mutevoli dei diversi paesi in via di sviluppo, non vedo questo in contrasto con il LFA.

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