Il tema della valutazione dell’impatto sociale nell’ambito delle ONG e del Terzo settore in generale è di estrema attualità. L’importanza di valutare gli outcomes (e non solo gli outputs), cioè il reale cambiamento prodotto attraverso la propria attività nella comunità in cui si è intervenuti, è oggi sottolineata da persone e negli ambiti più diversi. Parlare di cambiamento “reale” significa uscire dalla logica autoreferenziale nella quale, in buona sostanza, “ce la cantiamo e ce la suoniamo da soli”. Misurare il numero di attività svolte (corsi, conferenze, assistenze domiciliari…), i “prodotti” realizzati (scuole, pubblicazioni, pozzi…) e il grado di soddisfazione dei beneficiari non basta più. Occorre dimostrare in modo trasparente e verificabile come l’azione messa in campo abbia modificato concretamente (si spera in meglio…) la vita delle persone, l’area di intervento o il sistema di welfare nel quale la nostra realtà ha investito tempo, risorse e finanziamenti.
La valutazione dell’impatto sociale ha visto il suo massimo sviluppo in area anglosassone, che per tradizione (a anche con alcuni eccessi…) ha sempre prestato massima attenzione al tema. Non a caso è da quell’area che abbiamo mutuato alcune metodologie e terminologie come SROI – Social Return on Investment e Theory of Change.
Da alcuni anni, infatti, anche in Italia numerose realtà sia in ambito non profit che profit se ne stanno occupando a diverso titolo, tramite ricerche, sperimentazioni, policy paper, corsi di formazione, seminari dedicati. Solo per citarne alcune (ma il numero è decisamente più ampio): il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali dell’attuale Governo, la G7 Social Impact Investment Taskforce (il cui Advisory Board Italiano è Giovanna Melandri di Human Foundation), Fondazione Cariplo, SODALITAS, Fondazione Lang Italia, Fondazione Monzino, Banca Prossima, Consorzio Nazionale CGM, IRS-Istituto di Ricerca Sociale, UBI Banca.
Sono nati master universitari con percorsi di approfondimento dedicati a questo ambito in tutta Italia (fra cui spiccano quelli dedicati all’impresa sociale della Bocconi e di Altis, l’Alta Scuola Impresa e Socialità dell’Università Cattolica, unico membro italiano dello Sroi Network . Anche i media iniziano a parlarne, soprattutto quelli con una sensibilità al settore. Fra gli articoli più recenti:
Il bene si può misurare: l’ultima sfida del non profit
Trasparenza e open data i motori dell’innovazione sociale
Come evidenzia l’articolo dell’Avvenire, inoltre, “la Commissione europea ha fissato uno standard per misurare gli impatti di imprese a carattere sociale, che sarà determinante per accedere agli 86 milioni di euro stanziati dal 2014 al 2020 dal nuovo programma Employment and Social Innovation (EaSI) e agli European Social Entrepreneurship Funds (EuSEF), i fondi dedicati all’impresa sociale”.
La valutazione d’impatto sociale è anche uno dei punti cruciali della legge di riforma del Terzo Settore attualmente in discussione (nel disegno di legge delega sulla riforma del Terzo Settore si parla dell’impresa sociale come di un soggetto “avente come proprio obiettivo primario il raggiungimento di impatti sociali positivi misurabili, realizzati mediante la produzione o lo scambio di beni o servizi di utilità sociale”). Alcune Provincie toscane si sono già dotate di un “sistema modulare di valutazione” condiviso d’impatto sociale, dedicato alla Pubblica Amministrazione, al privato sociale e tutte le realtà impegnate nel welfare locale.
In Italia, infine, il tema della valutazione rappresenta una delle aree di novità della nuova Disciplina generale sulla cooperazione internazionale per lo sviluppo (Legge 125/2014) e ritorna in numerosi articoli, fra cui:
Art. 12 – Documento triennale di programmazione e di indirizzo e relazione sulle attività di cooperazione, comma 4 :“Il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, predispone una relazione sulle attività di cooperazione allo sviluppo realizzate nell’anno precedente con evidenza dei risultati conseguiti mediante un sistema di indicatori misurabili qualitativi e quantitativi, secondo gli indicatori di efficacia formulati in sede di Comitato di aiuto allo sviluppo dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE-DAC). La relazione dà conto dell’attività di cooperazione allo sviluppo svolta da tutte le amministrazioni pubbliche, nonché della partecipazione dell’Italia a banche e fondi di sviluppo e agli organismi multilaterali indicando, tra l’altro, con riferimento ai singoli organismi, il contributo finanziario dell’Italia, il numero e la qualifica dei funzionari italiani e una valutazione delle modalità con le quali tali istituzioni hanno contribuito al perseguimento degli obiettivi stabiliti in sede multilaterale.”
Art. 16. Consiglio nazionale per la cooperazione allo sviluppo, comma 2: “Il Consiglio nazionale, strumento permanente di partecipazione, consultazione e proposta, si riunisce almeno annualmente su convocazione del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale o del vice ministro della cooperazione allo sviluppo, per esprimere pareri sulle materie attinenti la cooperazione allo sviluppo ed in particolare sulla coerenza delle scelte politiche, sulle strategie, sulle linee di indirizzo, sulla programmazione, sulle forme di intervento, sulla loro efficacia, sulla valutazione”.
Anche la nuova Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo ha fra le sue responsabilità la “valutazione delle attività” (Art. 17, Comma 13), ma è soprattutto la Direzione Generale per la cooperazione allo sviluppo (Art. 20, Comma 2), che si occuperà di “valutazione dell’impatto degli interventi di cooperazione allo sviluppo e verifica del raggiungimento degli obiettivi programmatici, avvalendosi, a quest’ultimo fine, anche di valutatori indipendenti esterni, a carico delle risorse finanziarie dell’Agenzia sulla base di convenzioni approvate dal Comitato congiunto di cui all’articolo 21”.
Tutta questa attenzione alla valutazione d’impatto probabilmente si può attribuire a due fattori principali: da un lato, la crisi economica (di un intero sistema), che ha spinto tutti i soggetti a vario titolo coinvolti (Pubblica Amministrazione, finanziatori, privato sociale, realtà profit) a chiedere maggiore efficacia nelle spese e che questa efficacia fosse dimostrabile in modo trasparente e condiviso; dall’altro, una maturazione complessiva del Sistema Italia, molto centrata sull’accountability agli occhi sia dei finanziatori sia degli stakeholders e che si sta lentamente ma progressivamente muovendo verso una multistakeholder strategy, dove anche il privato for profit avrà un ruolo sempre più forte.
Il ritardo che scontiamo in Italia in questo ambito è sotto gli occhi di tutti (se si escludono poche realtà di eccellenza), così come l’urgenza di definire metodologie trasparenti e condivise di valutazione (ma con strumenti e attori specifici, localizzati). Se i finanziamenti (si pensi anche a tutto l’ambito della finanza privata e alle Pubbliche Amministrazioni che si stanno orientando sui cosiddetti social impact bond) saranno collegati alla capacità di dimostrare il reale cambiamento prodotto in termini di sviluppo, welfare e risparmio (a livello di costi economici e sociali), dall’altro occorrerà però che la valutazione possa dotarsi di risorse (economiche e umane), metodologie e strumenti adeguati a un obiettivo così strategico.
La complessità del tema e la sua urgenza generano tutta una serie di domande a cui non è affatto semplice rispondere, ma che occorrerà affrontare se non si vuole trasformare la valutazione d’impatto sociale in qualcosa di inutile, eccessivamente oneroso, imposto (calato dall’alto) e, alla fine, dannoso.
Alcune domande possono aiutare a cogliere la complessità:
1. Chi lavora per migliorare le condizioni di vita di altre persone ha a che fare innanzitutto con relazioni e “beni immateriali”, che spesso esplicano i loro risultati solo nel medio-lungo periodo: come è possibile misurare in modo sensato e in tempi utili questa tipologia di cambiamento? Attraverso quali strumenti e indicatori?
2. Chi finanzia la valutazione d’impatto sociale? Quale percentuale del budget deve esserle dedicata?
3. Chi forma i “valutatori”? Sulla base di quali teorie e metodologie?
4. Ogni realtà (pubblica, del privato sociale o for profit) ha caratteristiche peculiari e si muove su territori con caratteristiche uniche: come è possibile giungere a metodologie e indicatori di valutazione condivisi a livello regionale, nazionale ed europeo? Sono sufficienti criteri quali “validità”, “comparabilità”, “economicità” e “trasferibilità”?
5. Chi è responsabile della valutazione? Che ruolo hanno gli stakeholders nella definizione e nella valutazione degli obiettivi (focus, priorità) e degli indicatori specifici di ciascun progetto o programma valutato?
6. Se una valutazione di impatto sociale evidenziasse risultati negativi, quali saranno le conseguenze sulle realtà valutate?
7. Di chi è la responsabilità del non raggiungimento degli obiettivi di cambiamento? Esistono vincoli, fattori esterni e di contesto rilevanti?
8. Se un progetto non ha uno storico, come è possibile stimare preventivamente l’impatto che tale progetto andrà a realizzare?
9. Quale sinergia fra una valutazione d’impatto sociale e le normali attività di monitoraggio?
10. La valutazione di impatto sociale può migliorare le scelte strategiche di una ONG (di un’impresa sociale, di un Ente Locale… ) dal punto di vista della programmazione, del posizionamento e della raccolta fondi? Se sì, a quali condizioni?
Lungi dal cercare soluzioni semplici o preconfezionate, occorrerà un lavoro (in parte già iniziato) di sperimentazione e di condivisione di processi e risultati, nel quale ognuno dei soggetti territoriali coinvolti, dal livello locale a quello internazionale, dovrà essere chiamato a fare la sua parte.
di Christian Elevati (Consulente senior in progettazione, fundraising e valutazione)
Fermo restando la difficoltà, e quindi il costo, di misurare l’impatto di un progetto, è necessario che il mondo non-profit dia maggiore importanza alla misurazione di ciò che fa.
Tre punti mi sembrano importanti, in un percorso di avvicinamento alla misura dell’impatto:
a. i progetti devono avere obiettivi misurabili e misurati
b. i bilanci sociali devono contenere risultati numerici, non solo descrizioni, e devono essere sviluppati con il coinvolgimento degli stakeholders
c. le organizzazioni non-profit devono affrontare il problema aggregandosi per ambiti/ bisogni omogenei
La domanda è: chi sostiene i costi per far si che i sistemi di valutazione di impatto non siano accessibili solo a chi ha grandi risorse disponibili per pagare consulenti che attivino, monitorino e concludano questi processi?
Perché se pensiamo alla complessità per piccole realtà che producono grande impatto di implementare questi sistemi di misurazione all’interno del loro sistema di controllo di gestione (quando presente), o anche solo di fare il bilancio sociale, ci rendiamo conto di come, nel caso di una normativa che obblighi all’utilizzo di tale strumento, di fatto le metterebbe in grande difficoltà rispetto a grandi organizzazioni.
Ricordiamoci che il welfare italiano è composto (come è per l’industria italiana del manifatturiero ma non solo), di realtà piccole, che però trovano nella risposta a bisogni puntuali il loro vantaggio competitivo in termini di impatto.
Quale è quindi il trade-off nello sforzo da impiegare nello sviluppo di sistemi e metriche di misurazioni (una guida non va solo letta, ma interpretata, e per fare questo servono capacità di un certo tipo, che spesso internamente le organizzazioni non possiedono).
Il terzo settore va quindi prima professionalizzato in questo senso…. ma siamo sicuri che master e corsi universitari da 15.000 euro l’anno siano la soluzione perchè ciò accada anche in piccole organizzazioni?
Grazie Giovanni Fantone e Kristian per i vostri commenti, è proprio dal confronto su un tema così delicato che possono noscere le soluzioni migliori.
La misurazione dell’impatto sociale è importante e va fatta, il problema è che però si rischia di fare tutto un po’… all’italiana… senza fondi e con tanta burocrazia. Essenziale è rispondere alla domanda: chi paga per misurare l’impatto? Perché a livello europeo non sono le singole associazioni che erogano i servizi a dover misurare il proprio impatto ma, come evidenziato da Borzaga nell’articolo su Avvenire, dai fondi che ricevono finanziamenti dall’Ue… e che devono dimostrare che questi finanziamenti sono andati a buon fine. Altrimenti il tutto rischia di diventare un bel boomerang per il Terzo Settore.