Alcuni giorni fa sono state pubblicate le graduatorie finali del Bando 2023 per la concessione di contributi a Iniziative promosse da Enti Territoriali e dalle Organizzazioni della società civile e gli altri soggetti senza finalità di lucro da parte dell‘Agenzia per la Cooperazione.
Un iter durato 460 giorni dalla data di approvazione da parte del Comitato Congiunto, che vedrà probabilmente partire l’implementazione dei primi progetti da qui a giugno. Quasi due anni, un tempo decisamente troppo lungo, che pone sempre più domande “esistenziali” su questo tipo di strumento di erogazione delle risorse e sulle modalità e le procedure che l’Agenzia ha costruito nell’ambito della legge 125 del 2014. Sono domande che si pongono a diversi livelli tutti gli attori coinvolti nel sistema della cooperazione italiana e che hanno a che fare con la sostenibilità e l’efficacia di questo modello nel contesto attuale della cooperazione internazionale. Se da un lato il livello politico ne lamenta l’inefficienza soprattutto in termini di tempi di realizzazione (recentemente il Vice Ministro Cirielli ha espresso forti perplessità su questo bando), dall’altro diversi funzionari del MAECI e della stessa AICS nutrono sempre più dubbi sull’efficacia rispetto agli obiettivi principali dei bandi, ovvero garantire trasparenza e competizione nell’uso dei fondi pubblici selezionando i progetti più meritevoli e capaci di generare impatto.
C’è poi la percezione dei proponenti, i cosiddetti applicant, quelle organizzazioni, enti ed oggi anche aziende che sono chiamate a partecipare a queste procedure comparative per assicurarsi le risorse per l’implementazione dei progetti e la realizzazione della propria mission. Nonostante la difesa delle garanzie di trasparenza e pari opportunità che il bando dovrebbe assicurare, tra gli operatori del settore cresce la frustrazione su questo modello competitivo che ha generato progressivamente una serie di distorsioni e controindicazioni che sembrano quasi vanificarne il senso.
D’altronde il dibattito sull’efficacia dei bandi e delle call for proposals nella cooperazione internazionale e dell’aiuto umanitario va ben oltre i confini del nostro paese. Nelle pagine di Info Cooperazione abbiamo spesso documentato questo dibattito sottolineando i punti di forza e debolezza del sistema bandi e valorizzando interessanti alternative che alcuni donatori hanno sperimentato e messo in campo. Estimatori e detrattori concordano sul fatto che serva bilanciare la necessità di accountability con una maggiore flessibilità, sperimentando nuovi modelli di finanziamento che permettano di rispondere in modo più efficace e sostenibile alle sfide globali.
Le criticità del modello competitivo
Se volessimo sintetizzare in poche righe le lunghissime discussioni sul tema potremmo identificare questi quattro punti che sembrano i più dolenti:
1. Aumento della burocrazia e riduzione della flessibilità
L’obbligo di redigere proposte dettagliate, seguire procedure amministrative complesse e rispondere a criteri rigidamente predefiniti porta le organizzazioni a investire una parte crescente delle proprie risorse nel fundraising e nella gestione burocratica, a discapito dell’azione sul campo. Questo fenomeno è stato evidenziato da diversi studi, tra cui quelli del Global Public Policy Institute (GPPI), che sottolineano come i costi amministrativi delle ONG siano aumentati del 25-30% negli ultimi vent’anni a causa delle richieste sempre più stringenti dei donatori.
2. Impoverimento delle organizzazioni
Attraverso i bandi le organizzazioni ricadono anche nel cosiddetto “starvation cycle“, o ciclo della fame, un fenomeno che affligge molte organizzazioni non profit e si instaura quando le organizzazioni ricevono finanziamenti che coprono solo parzialmente i costi operativi e amministrativi, costringendole a operare con risorse insufficienti per sostenere le proprie infrastrutture e capacità organizzative. Di conseguenza, le ONG sono spesso obbligate a sottostimare o ridurre i costi generali per conformarsi alle aspettative dei finanziatori, perpetuando l’idea che il lavoro non profit debba “costare poco”.
3. Competizione Vs collaborazione
La natura competitiva delle call for proposals costringe le organizzazioni a competere per accedere alle risorse, piuttosto che collaborare per risolvere problemi complessi. Questo genera un effetto “mercato”, dove le ONG più grandi, con maggiori capacità amministrative e gestionali, riescono a vincere la maggior parte dei bandi, mentre le realtà più piccole e radicate nei territori fanno fatica a essere competitive.
4. L’ossessione per il risultato immediato
Molti bandi richiedono di generare risultati in breve tempo attraverso ambiziosi set di indicatori quantitativi, in alcuni casi anche di impatto, in tempi brevi, spingendo le ONG a privilegiare attività “visibili” e a breve termine, piuttosto che azioni di advocacy, empowerment delle comunità o riforme strutturali che potrebbero portare a un impatto più duraturo ma difficilmente quantificabile in un ciclo di progetto di 1-3 anni.
Le specificità del bando AICS
Al di là delle criticità generali che il sistema bandi pone, il modello adottato da AICS ha una serie di peculiarità che lo rendono particolarmente complesso e rigido in tutte le sue fasi e determinano un allungamento dei tempi di esecuzione.
1. La gabbia dell’RBM
L’approccio RBM (Result Based Management) che avrebbe dovuto migliorare la gestione e l’efficacia degli interventi e semplificare le procedure, nella modalità applicata da AICS si è trasformato in un vincolo burocratico poiché non è stato adottato in modo flessibile, combinando dati quantitativi e qualitativi e adattandolo alle complessità del contesto operativo. I vincoli stringenti sull’identificazione degli indicatori e lo spauracchio della “cost reduction” in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi, costringono a progettazioni artificiose e strumentali che diventano una vera e propria gabbia burocratica in fase di implementazione.
2. Un bando analogico
A complicare il processo è la mancanza di uno strumento digitale di gestione. Nonostante da oltre tre anni sia stata annunciata l’implementazione di un grande sistema digitale denominato “Sistake” per il quale sono già stati investiti diverse centinaia di migliaia di euro, i bandi AICS viaggiano ancora con file scambiati per email. Una modalità che applicata su diverse centinaia di contratti aperti determina confusione e inefficienza. Un sistema digitale, a patto che sia agile e mirato a semplificare il lavoro dell’Agenzia e delle organizzazioni, ridurrebbe notevolmente i tempi e i costi del bando.
3. Il mega bando
La complessità del meccanismo e la necessità di erogare le risorse assegnate costringe l’Agenzia a costruire un bando di ampie dimensioni composto da diversi lotti e ambiti tematici e geografici. Quest’ultima edizione aveva una dotazione finanziaria di 180 milioni per la quale sono state presentate oltre 270 proposte progettuali da OSC ed Enti Territoriali. La presentazione delle proposte in modalità completa con dossier progettuali di centinaia di pagine e la valutazione effettuata in house comporta tempi di valutazione molto lunghi oltre all’oneroso coinvolgimento di un numero importante di funzionari dell’Agenzia. A questo si aggiungono una serie di verifiche ex-post che vengono effettuate con le sedi AICS e le ambasciate riguardanti la capacità operativa e le condizioni di sicurezza in determinati paesi, verifiche che potrebbero essere eliminate determinando già ex-ante queste condizioni.
4. Too big to fail
L’Agenzia non ha la capacità di gestire una procedura di questa mole e complessità nell’arco di un anno e questo comporta l’impossibilità di erogare le dotazioni annuali assegnate. Anche nel caso del bando 2023, come già successo in passato, si è recentemente provveduto a finanziare la graduatoria del bando con una dotazione finanziaria aggiuntiva anziché aprire un nuovo bando. Questo comporta il finanziamento di quasi tutti i progetti presentati annullando di fatto la “selezione” di merito.
Cosa fare
Davanti a questo sistema ormai giudicato unanimemente non sostenibile e poco adatto al contesto attuale (vedi Piano Mattei e allargamento degli attori della cooperazione), da più parti sembra che la tentazione sia quella di fare tabula rasa e ragionare su modalità di erogazione diverse dai bandi. Seppure questa possa sembrare per molti una potenziale liberazione potrebbe significare una deregulation pericolosa a scapito dei principi di trasparenza e pari opportunità che devono sempre essere preservati in presenza di finanziamenti pubblici. Chi opera da più anni nel settore ricorderà come venivano erogati i fondi di cooperazione prima dell’avvento dei bandi e della creazione dell’AICS, un passato al quale sarebbe meglio non tornare.
È vero che a livello internazionale alcuni donatori stanno sperimentando modelli di finanziamento più flessibili come le Partnership strategiche di lungo periodo tra donatori e organizzazioni o la cosiddetta Trust-Based Philanthropy che prevede il finanziamento pluriennale a organizzazioni selezionate, riducendo il peso della burocrazia e lasciando più margine di manovra per adattarsi ai bisogni emergenti. Ma queste soluzioni potrebbero essere non adatte o premature per il contesto della cooperazione italiana che vede una pluralità di attori che possono apportare un contributo qualificato nei diversi ambiti tematici e geografici della cooperazione internazionale. È utile ricordare che solo l’elenco delle OSC detenuto da AICS sulla base della legge 125 conta oltre 250 organizzazioni.
Potrebbe essere meglio non buttare il bambino con l’acqua sporca e ripensare il modello dei bandi tenendo come faro la semplificazione e la flessibilità che la cooperazione richiede per sua stessa natura.
La parola chiave potrebbe essere “Diversificare”. Il bando è uno strumento che può funzionare se di adatta al contesto e al target al quale si riferisce. Non può esistere un unico procedimento con procedure analoghe che risponda alle diverse esigenze in termini di budget, di tipologia di azione o di beneficiario. Il primo spartiacque è quello del finanziamento di programmi o progetti, una questione di scala quindi.
1. Programmi di medio-lungo termine
Per finanziare programmi di medio-lungo termine con budget consistenti (da 5 milioni in su e oltre i 5 anni) la dimensione comparativa dovrebbe essere spostata sulla scelta dell’organizzazione che dovrà implementarli. A questa tipologia potrebbe essere applicato il modello delle partnership strategiche di lungo periodo tra donatori e organizzazioni, basate su obiettivi condivisi e non su singoli progetti. Questo approccio è stato sperimentato con successo dall’ex DFID britannico, dal Ministero degli Affari Esteri olandese e dalla svedese SIDA che finanziano ONG o consorzi per lavorare su tematiche specifiche per più anni, senza la necessità di competere ogni volta per nuovi bandi. Va da sé che questa tipologia di contratti verrà siglata con organizzazioni più grandi e strutturate che potrebbero eventualmente coinvolgere nei consorzi ONG più piccole o locali che hanno expertise specifiche o capacità operative necessarie al programma. In questo caso il bando assomiglierà molto di più a una manifestazione di interesse più che a una classica call for proposals. Su questa tipologia è sensato costruire con le organizzazioni beneficiarie un meccanismo di valutazione dell’impatto magari basato sui principi della Teoria del cambiamento con un approccio basato sui risultati.
2. Progetti puntuali o small scale
Per finanziare questa tipologia di azioni che normalmente non hanno budget superiori a 2-3 milioni su massimo 3 anni la call for proposals può essere uno strumento efficace purché sia resa più snella e veloce da una soluzione in due fasi: una selezione delle idee con la classica concept note e una seconda fase di progettazione completa. L’esempio della francese AFD sembra essere il più adeguato perché il bando si adegua alle dimensioni dei progetti e delle organizzazioni proponenti e non richiede un investimento eccessivo nella fase di progettazione che potrebbe non andare a buon fine. Su questa tipologia le organizzazioni possono competere alla pari per proporre le loro idee progettuali nell’ambito delle priorità strategiche e geografiche della cooperazione italiana. In questo caso la valutazione delle iniziative dovrà fermarsi a livello di output o di outcome di breve termine.
3. Progetti di emergenza
Anche per i progetti di emergenza i bandi non sono lo strumento giusto, parliamo di aiuto umanitario che necessita tempi molto ridotti e massima flessibilità oltre che expertise specifiche delle organizzazioni che operano sul campo. In questo settore potrebbe essere applicato in toto il modello europeo di ECHO che prevede un processo di accreditamento delle organizzazioni che hanno capacità operative e gestionali adeguate all’operatività nel campo umanitario. Una volta accreditate, le organizzazioni possono presentare le proprie proposte di progetto, che devono essere allineate alle priorità annuali stabilite, i bisogni identificati, le priorità e i fondi disponibili per ogni paese/regione.
A voi la parola
Fin qui in sintesi la nostra analisi frutto di confronti e scambi con molti operatori del settore che negli ultimi mesi hanno avuto a che fare con i bandi e in particolare quello dell’AICS. Abbiamo voluto chiudere con alcuni elementi di proposta che però vorremmo verificare e arricchire con le vostre opinioni, in particolare quelle centinaia di lettori e lettrici che si cimentano quotidianamente con questo sistema dalla progettazione fino alla rendicontazione e valutazione delle iniziative finanziate.
Non possiamo sentirvi tutti e lo facciamo quindi attraverso un questionario che speriamo restituisca una quadro complessivo sull’efficacia di questo modello e sulle possibili alternative.