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Cooperazione internazionale e aiuto umanitario, non è un mestiere per giovani?

Il settore della cooperazione internazionale e dell’aiuto umanitario si trova ad affrontare un apparente paradosso: mentre le organizzazioni segnalano una crescente difficoltà nel reperire candidati per ricoprire i profili professionali necessari, i giovani lamentano difficoltà ad accedere a queste carriere a causa di barriere strutturali e requisiti d’ingresso sempre più selettivi. Una situazione già nota nel settore che si è aggravata negli ultimi anni per via della crescente complessità delle crisi globali, dall’evoluzione continua delle competenze richieste e dai cambiamenti nelle aspettative delle nuove generazioni.

Secondo l’ultimo rapporto State of the Humanitarian System dell’ALNAP, le crisi umanitarie in costante aumento hanno reso necessario un numero crescente di operatori altamente specializzati. Tuttavia, molte organizzazioni non riescono a trovare candidati idonei per coprire le posizioni chiave, in particolare per ruoli operativi in contesti difficili. Una recente indagine del Norwegian Refugee Council (NRC) ha evidenziato che il 55% delle ONG internazionali ha difficoltà a reclutare professionisti con esperienza in settori come Logistica e gestione della supply chain, Sicurezza e gestione del rischio e Data analysis e tecnologie digitali.

I profili più ricercati dalle organizzazioni italiane

Uno scenario molto vicino a quello che si registra nel nostro paese e che emerge dall’analisi delle vacancy pubblicate da Info Cooperazione che ci fornisce un quadro indicativo su quali siano i profili più richiesti del settore dalle organizzazioni italiane.  

Nel 2024 sono state pubblicate quasi 2000 offerte di lavoro da 180 diverse organizzazioni che hanno ricercato attraverso Info Cooperazione i migliori candidati per ricoprire posizioni lavorative in ben 77 paesi del mondo, il 72% si riferivano a profili espatriati (67% nel 2022) e il 28% a profili che operassero in Italia. In generale i dati mostrano un continuo aumento numerico delle posizioni rese disponibili dalle organizzazioni, le cosiddette vacancy che ormai da oltre 10 anni rendiamo disponibili nella sezione dedicata di questo sito che è diventata un punto di riferimento di chi offre e cerca lavoro nel settore della cooperazione e dell’aiuto umanitario.

Si confermano ai primi posti i profili chiave del mondo della cooperazione e dell’aiuto umanitario. Il 30,7% degli annunci ricercava figure di Project e Programme management, il 17,5% si riferiva a figure amministrative in Italia e all’estero e il 7,9% riguardava la figura del Rappresentante paese e Capo missione. Crescono in modo significativo alcuni profili più specifici che riguardano la logistica, il monitoraggio e la valutazione, la gestione dei dati e la mediazione culturale e linguistica. Di seguito il quadro completo dei profili più richiesti che abbiamo recentemente presentato nel panel “Generazione globale: i giovani al centro della Cooperazione Internazionale” del 6° Summit nazionale delle diaspore.

Un’analisi più settoriale di questi dati conferma il trend internazionale con una crescente richiesta di figure esperte nel settore umanitario in coerenza con la crescita delle attività di emergenza registrate da Open Cooperazione nell’aggregazione dei dati delle OSC italiane del 2024. Aumenta il recruitment di profili dedicati alla gestione di operazioni di emergenza, oltre a quelli dedicati alla logistica. In aumento la pubblicazione di vacancy per la ricerca di operatori dedicati al procurement, alla sicurezza e alle operazioni di prima assistenza, accoglienza e distribuzione di beni. Una tendenza confermata anche dall’analisi geografica delle vacancy pubblicate dalla quale emerge l’aumento di ricerche di personale da parte delle OSC negli scenari umanitari e di conflitto, come Ucraina, Palestina, Libano, Siria, RCA e Sudan. Di seguito le 10 organizzazioni italiane che hanno pubblicato più offerte di lavoro durante l’anno passato: INTERSOS, WEWORLD, COOPI, CUAMM, AICS, AVSI, CESVI, EMERGENCY, MSF e SAVE THE CHILDREN.

Il calo delle iscrizioni ai master e ai corsi di formazione

Eppure, nonostante la crescente richiesta di professionisti, negli ultimi anni molte università e centri di formazione specializzati stanno registrando un calo delle iscrizioni ai master e ai corsi di cooperazione internazionale. Secondo un’analisi del Development Studies Association (DSA) nel Regno Unito, le iscrizioni ai programmi di master in cooperazione internazionale sono diminuite del 20% tra il 2018 e il 2023, con un calo ancora più marcato nelle università non di punta. Un rapporto dell’Associazione delle Università Europee (EUA) evidenzia che molti programmi di studio sulla cooperazione internazionale stanno avendo difficoltà a raggiungere il numero minimo di iscritti, portando alla riduzione o chiusura di alcuni corsi. Questo sta accadendo anche nel nostro paese dove i principali Master sulla cooperazione internazionale faticano progressivamente ad attrarre studenti, alcune università italiane hanno interrotto o ridimensionato l’offerta formativa e recentemente l’Istituto per gli studi di politica internazionale – ISPI ha deciso di interrompere il suo storico Master in International Cooperation giunto alla 19° edizione.

Le cause di questo calo potrebbero essere molteplici:

  • Scarsa accessibilità economica: Un master può costare tra i 5.000 e i 15.000 euro più la necessità di spostarsi e sostenerne i costi.
  • Percezione di scarse opportunità di carriera: Il settore è visto come altamente competitivo e precario, con difficoltà di inserimento e percorsi lavorativi non sempre garantiti.
  • Spostamento dell’interesse verso altri ambiti: Le nuove generazioni sono più attratte da settori come la tecnologia, l’innovazione sociale e l’imprenditoria a impatto sociale, considerati più dinamici e con maggiori prospettive di carriera.
  • Carenza di stage e percorsi di inserimento: Molti giovani non vedono nei master un vantaggio concreto per l’ingresso nel settore, data la predominanza di contratti a progetto e la richiesta di maturare diversi anni di esperienza sul campo.

C’è poi un problema che riguarda direttamente gli istituti di formazione. Negli ultimi vent’anni i fornitori di questi servizi fra università e istituti privati hanno aumentato l’offerta formativa in maniera spropositata. Alcune università italiane hanno ancora oggi nello stesso ateneo diversi percorsi in materia di cooperazione ma che sembrano spesso poco centrati sulle reali esigenze del mercato. A questo si aggiunge che anche diverse ONG hanno messo in campo ulteriori percorsi formativi a pagamento per assicurarsi il recruitment di candidati idonei alle proprie esigenze operative.

Le barriere per i giovani: perché faticano ad entrare nel settore

Nonostante il settore sia sempre più alla ricerca di nuovi talenti, per molti giovani l’ingresso in questo ambito professionale risulta ancora particolarmente in salita. Una delle principali difficoltà riguarda l’esperienza richiesta: la maggior parte delle organizzazioni, incluse le ONG e le agenzie internazionali, preferisce candidati con almeno due o tre anni di lavoro sul campo. Per accedere a un primo impiego servirebbe già un bagaglio di esperienze che, tuttavia, è difficile acquisire senza opportunità di ingresso concrete. In questo senso solo l’esperienza del Servizio Civile sembra essere in grado di dare una prima chance d’ingresso a molti giovani nel settore.

Un altro problema è la scarsità di opportunità sufficientemente retribuite per chi è alle prime armi. Molte posizioni entry-level nel settore della cooperazione sono in realtà tirocini o volontariati non pagati, rendendo difficile per chi non dispone di risorse economiche personali intraprendere questo percorso soprattutto in città come Roma e Milano. Secondo il report The Future of Humanitarian Work, quasi due terzi dei giovani che oggi lavorano nella cooperazione hanno svolto più di un’esperienza non retribuita prima di ottenere un contratto vero e proprio.

Per le poche opportunità di internship sufficientemente retribuite, la competizione è altissima. Le organizzazioni internazionali accettano meno del 5% dei candidati ogni anno. Lo stesso accade per molte ONG internazionali, che ricevono centinaia di candidature per ogni posizione disponibile, rendendo l’accesso estremamente selettivo.

Il fattore generazionale

C’è poi un fattore generazionale che gli uffici delle risorse umane si trovano sempre più spesso a dover affrontare. Le giovani generazioni mostrano un approccio diverso rispetto alle precedenti nei confronti del lavoro. Secondo il Global Shapers Survey del 2022, i giovani cercano carriere che garantiscano un equilibrio tra impatto sociale, stabilità economica e qualità della vita. La cosiddetta generazione Z è fortemente orientata all’innovazione tecnologica e al bilanciamento tra vita privata e lavoro, due aspetti che spesso non trovano sufficiente spazio nel mondo della cooperazione tradizionale. Un sondaggio condotto dall’Inter-Agency Standing Committee (IASC) nel suo Humanitarian Sector Review ha evidenziato che i giovani operatori umanitari si aspettano maggiore flessibilità lavorativa, uso più diffuso di strumenti digitali e opportunità di leadership precoce, aspetti che non sempre vengono valorizzati anche nelle strutture organizzative più consolidate.


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  1. Sono molto d’accordo con questo articolo! Aggiungerei che per le poche posizioni entry level che esistono sia italiano che europeo, spesso mettono come barriera aggiuntiva quella di essere residente da almeno uno o due anni sul territorio del paese. Non vi è alcun motivo reale per farlo e questa cosa dovrebbe essere abolita. Perché un assistente amministrativo deve già stare da due anni in un paese X, se deve fare pratiche in italiano, o al limite in francese o inglese per il proprio paese o per istituzioni europee? Doveva respirare l’aria buona del paese X? Viene il sospetto che anche questa sia una barriera per permettere a chi già lavora lì, magari in ONG o ONU, di passare da un impiego all’altro nello stesso paese. Cioè, non esiste proprio la mentalità di prendere una persona che è a casa sua e che magari vuole entrare in cooperazione dopo scienze politiche, formarla per gradi etc…Per quel poco che ho visto io, la cooperazione è un circuito chiuso e chi ci entra passa la vita ad andare da incarichi in istituzioni internazionali a cooperazione statale e vice versa, con la priorità assoluta di trovare contatti per il suo prossimo lavoro. È quasi impossibile entrare cooperazione solo perché hai una laurea con 110 e lode in scienze politiche e, onestamente, non credo che i master cambino poi tanto la probabilità. Grazie per l’articolo, che almeno ha provato a rifletterci.

  2. Lavoro come Career Development Coordinator per la Social Change School che dal 1997 a livello internazionale forma giovani (e meno giovani) professionisti e mnager interessati a lavorare nel terzo settore e nella cooperazione. Nonostante l’analisi sia interessante, manca il punto di vista delle risorse umane delle ONG, con cui sono in contatto regolarmente.
    Se da un lato è vero che queste organizzazioni dispongono di budget limitati per accompagnare l’inserimento di figure junior (una restrizione imposta dalla natura dei fondi dei donatori, e non dalle ONG stesse), dall’altro ci sono altri fattori da considerare.
    Ad esempio, nell’ultimo bando del Servizio Civile Universale, le destinazioni meno richieste sono state i Paesi dell’Africa Subsahariana. Questo solleva una domanda: i giovani vogliono davvero andare dove serve o piuttosto dove piace?
    Un altro aspetto rilevante riguarda le figure professionali più ricercate. Una delle più richieste è l’amministratore, eppure pochi scelgono la cooperazione per svolgere un ruolo amministrativo. Inoltre, c’è la questione dell’investimento: molti giovani non si sentono pronti per esperienze di lunga durata, ma un’azienda for-profit investirebbe su un candidato che dichiara fin da subito di voler partire solo per 3 o 6 mesi?
    In definitiva, i dati in mio possesso non sono così negativi come suggerisce l’articolo. Per i giovani c’è spazio, considerando l’elevato turnover nelle ONG. Chi è disposto a uscire dalla propria comfort zone e partire per 12 mesi come amministratore o infermiere in Repubblica Centrafricana troverà sicuramente opportunità con le principali organizzazioni del settore.

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