La Conferenza Italia-Africa di fine gennaio ha rappresentato il primo banco di prova per il Piano Mattei, un evento simbolico con il quale la premier ha voluto rivendicare il ruolo e della posizione geostrategica dell’Italia tra Europa e Africa e tastare il polso dei potenziali partner africani ed europei.
La risposta è stata “tiepida”: molte attestazioni di stima, alcune poltrone vuote e qualche distinguo. Il più imbarazzante è stato sicuramente quello del presidente della Commissione dell’Unione africana, Moussa Faki Mahamat, che nel suo intervento ha stigmatizzato la mancata consultazione sul Piano Mattei e ha messo in guardia la premier sulla frustrazione dei paesi africani davanti a molteplici promesse non mantenute da parte dei paesi donatori.
Una battuta che non è passata inosservata poiché andrebbe a screditare proprio uno degli elementi fondanti dell’iniziativa italiana presentata come un nuovo paradigma della cooperazione italiana in Africa; non predatoria, paritaria e decolonizzata. Fu proprio Giorgia Meloni a dichiarare durante la sua visita in Mozambico che “Non ci sarebbe nulla di nuovo se noi pretendessimo di scrivere un piano da presentare all’Africa. Una cosa nuova può essere scriverlo insieme”.
Un nuovo modello di cooperazione che era parso a molti la vera novità del Piano Mattei e che potrebbe far recuperare terreno all’Italia nel percorso verso la cosiddetta “localizzazione dell’aiuto”. Nel gergo internazionale dell’aiuto allo sviluppo viene chiamata “country ownership, localization, local ownership, locally led development, decolonization”, qualsivoglia sia la definizione la sostanza è molto chiara: garantire maggiore partecipazione e capacità di azione agli stakeholder dei paesi in via di sviluppo, siano essi governi, istituzioni, imprese, organizzazioni della società civile o comunità locali.
È una sfida che alcuni donatori stanno affrontando da diversi anni cercando di reimpostare le loro politiche di cooperazione per fare in modo che gli attori locali, individualmente e collettivamente, siano protagonisti nella definizione dell’agenda, nella progettazione dei programmi, nella gestione delle attività e nella conduzione delle valutazioni. Ma il principale dilemma per le agenzie di sviluppo resta quello di come passare da azioni politiche e simboliche, come la concessione di piccole sovvenzioni alle organizzazioni locali, ad un’autentica ownership locale in cui le priorità, le direzioni dei programmi e le decisioni finanziarie siano determinate dagli attori locali.
Un percorso molto complesso che richiede strategia e continuità oltre a un cambiamento culturale nella visione dello stesso aiuto allo sviluppo. Ne è una prova che quei donatori che hanno fatto qualche passo in avanti concreto ci stanno ormai lavorando da oltre un decennio non senza ostacoli e conflitti.
Tra i grandi donatori internazionali il percorso più avanzato è quello degli Stati Uniti che dall’epoca dell’amministrazione Obama si erano dati obiettivi ambiziosi in questo senso tra i quali quello di destinare il 30% di tutti i finanziamenti USAID alle organizzazioni locali, compresi i governi partner. Un obiettivo messo in discussione da buona parte del personale di USAID che si è successivamente rivelato troppo ambizioso e irraggiungibile senza un percorso interno condiviso. Ciononostante, l’idea di “localizzare” l’aiuto allo sviluppo americano ha continuato a guadagnare sostegno anche tra i politici fino a ritornare in auge con l’amministrazione Biden che ha ridato impulso al percorso e promette una revisione completa del sistema di grant-making di USAID nel 2024.
Il Piano Mattei e il suo percorso di elaborazione, anche strategico, che in questi mesi è nelle mani della struttura di missione creata a Palazzo Chigi potrebbe rappresentare un punto di partenza importante per l’Italia in un percorso di localizzazione dell’aiuto anche perché le risorse di cui il piano sarà dotato sembrano essere costituite interamente da fondi classificati proprio come APS. Si tratta infatti di 5,5 miliardi di euro tra crediti, operazioni a dono e garanzie: circa 3 miliardi dal fondo italiano per il clima e 2,5 miliardi e mezzo dal fondo per la Cooperazione allo sviluppo. È proprio su questo tipo di fondi che la comunità internazionale si è data degli impegni condivisi sulla localizzazione a partire dalla Dichiarazione di Parigi (2005), passando per l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile (2015), fino al Grand Bargain (2016-2021) e al più recente “Donor Statement on Supporting Locally Led Development” sottoscritto a Ginevra alla fine del 2022.
Impegni, in molti casi sottoscritti anche dall’Italia, che richiedono azioni concrete e condivisione con tutti gli attori coinvolti nel sistema italiano della cooperazione. Così il Piano Mattei potrebbe davvero essere la via italiana verso la localizzazione dell’aiuto.
La realizzazione del Piano Mattei funzionerà se i Paesi interessati saranno partecipi, protagonisti e operosi a cambiare strategia. L’Italia potrebbe cominciare da dove ha dovuto lasciare nel 1941 con la perdita della guerra. Il Corno d’Africa sarà la base degli interventi in Eritrea, Somalia, Etiopia con in aggiunta del Kenia. Le necessità di questi Stati si conoscono ma i progetti si dovranno concordare e le priorità dovranno essere rispettate per superare l’arretratezza. L’Italia non si tirerà indietro e molti italiani saranno disposti a lavorare lontano da casa per favorire la crescita dei Paese già amici e di quelli che lo diventeranno. Ho fiducia nel Governo, ma anche dei Paesi interessati e disponibili ad essere aiutati dagli italiani. Avanti insieme per i popoli africani.