Un nuovo report recentemente pubblicato dal Centre for Global Development (CGD) ha analizzato i possibili scenari futuri per quanto riguarda la crescita economica globale, arrivando alla conclusione che la povertà estrema potrebbe essere sradicata entro il 2050.
Secondo il CGD, la crescita demografica favorirà maggiormente i paesi in via di sviluppo, mentre una riduzione della fertilità e l’invecchiamento della popolazione nei paesi avanzati saranno un peso che ridurrà la crescita. Inoltre, l’istruzione è definita come uno degli elementi trainanti della crescita che faciliterebbe una convergenza a livello globale. Gli impatti dei cambiamenti climatici non sono considerati rilevanti per lo sviluppo economico prima del 2050, perciò vengono intenzionalmente trascurati (sebbene si evidenzi una possibile ricaduta sulla crescita per questi effetti entro il 2100).
Grazie alla crescita nei paesi a basso reddito, che favorirebbe un aumento dell’occupazione stabile con un salario fisso, la povertà estrema (che per definizione dalla Banca Mondiale è “vivere con un meno di $2.15 al giorno”) potrebbe essere ridotta sotto il 2% anche negli scenari meno ottimisti, dall’8% stimato nel 2022. In particolare, nel continente africano la riduzione sarebbe drastica, dall’attuale 29% al 7%. Inoltre, entro il 2050 si stima che almeno due persone su tre potranno vivere con più di $10 al giorno, dal 42% delle attuali stime. Ad oggi, il restante 58% della popolazione mondiale vive con meno di $10 al giorno, e questo include circa nove persone su dieci nel continente africano e in India. Secondo lo scenario standard previsto dal report, queste proporzioni si ridurrebbero a metà della popolazione indiana ed un terzo di quella africana.
Altro dato interessante è la progressiva convergenza in termini di PIL tra i paesi a basso reddito e le economie più avanzate. Entro il 2050 non esisterà più un gruppo di paesi a basso reddito, mentre la proporzione di popolazione globale che vive nelle economie avanzate potrebbe raddoppiare (dall’odierno 16%). Al contrario, se oggi i paesi più ricchi possiedono oltre il 63% della ricchezza globale in termini di GDP, nel 2050 ne rappresenteranno meno del 50%. La Cina da sola potrebbe contare per circa un quinto del PIL mondiale (poco più degli USA), mentre l’UE ridurrebbe la propria sfera di influenza, passando dal 18% al 13%. Questa tendenza si ritroverebbe poi anche negli organismi delle istituzioni sovrannazionali, come il Fondo Monetario Internazionale o la Banca Mondiale, dove le economie ad alto reddito ridurrebbero il loro potere e peso sulle decisioni comunitarie.
Questo report contiene delle novità importanti riguardo lo sviluppo e la crescita globale, e presenta delle considerazioni finali piuttosto ottimiste. A tale fiducia, si contrappone il pessimismo più realista di alcune voci autorevoli che hanno evidenziato le criticità di questo studio. Tra loro Olivier De Schutter, relatore speciale su povertà estrema e diritti umani presso le Nazioni Unite che ha espresso la sua visione con un articolo sul Guardian qualche giorno dopo la pubblicazione del report.
“È plausibile che, mentre il benessere monetario aumenta nei paesi a basso reddito, la situazione di alcuni specifici gruppi in realtà peggiori”. De Schutter evidenzia come in realtà la crescita di un paese non sia omogenea e spesso non corrisponda ad un miglioramento delle condizioni di vita delle fasce più povere. Egli afferma che vi sono fattori ed elementi storici per pensare che possa andare così anche in futuro. Innanzitutto, molta della crescita a livello globale è spesso stata raggiunta attraverso la “mercificazione delle risorse naturali e culturali sulle quali le comunità più povere fanno affidamento, e che nel passato potevano essere liberamente accessibili”. Certamente questo processo è andato a sfavore dei poveri, che non hanno più potuto contare sui mezzi di sussistenza distribuiti autonomamente e democraticamente sulla base dei bisogni di sostentamento.
La creazione del mercato ultra-capitalista ha fatto in modo che i paesi in via di sviluppo creassero condizioni economiche che fossero capaci di attrarre gli investitori, abbassando la tassazione per le aziende e togliendo così risorse alle politiche statali di welfare e protezione sociale. Anche per queste ragioni, il mercato del lavoro è stato reso più flessibile, cioè più precario e meno stabile, sfavorendo le fasce più povere con meno contratti a lungo termine e meno protezione garantita sul lavoro, “come se il vantaggio comparato di un paese consistesse nel lasciare in povertà la propria forza lavoro”.
Lo special rapporteur afferma quindi che è necessario spostare l’attenzione dalla crescita e concentrarsi sulle politiche di welfare per ridurre le disuguaglianze, aumentare i servizi pubblici e la tassazione progressiva, favorire la coesione sociale ed economica.
Sicuramente la crescita può aiutare e facilitare la lotta alle disuguaglianze e la riduzione della povertà, ma questo non può accadere senza l’affiancamento di politiche consapevoli, volte all’estensione del welfare sociale ed economico. (Articolo a cura di Giovanni Colombo)