Più di sei anni fa, il World Humanitarian Summit ha convocato i principali attori del sistema internazionale per elaborare un quadro per la riforma dell’assistenza umanitaria e dell’aiuto allo sviluppo, ed ha dato vita al cosiddetto Grand Bargain. Inizialmente pensato come un accordo tra i cinque maggiori donatori e le sei maggiori agenzie delle Nazioni Unite, il Grand Bargain è un processo multistakeholder che comprende ora 65 firmatari (25 Stati membri, 24 INGOs, 12 agenzie delle Nazioni Unite, due movimenti di Croce Rossa/Mezzaluna Rossa e due organizzazioni intergovernative).
Dopo 5 anni di lavoro sono state concordate due priorità abilitanti al fine di migliorare l’impatto degli aiuti per le popolazioni colpite attraverso una maggiore efficienza, efficacia e accountability:
- Migliorare la qualità dei finanziamenti in modo tale da consentire una risposta efficace ed efficiente del sistema dell’aiuto
- Garantire sostegno alle leadership locali rinforzando le capacità dei soccorritori locali e la partecipazione delle comunità colpite nell’affrontare i bisogni umanitari.
Uno dei temi dominanti di questo meccanismo è stato quello della “localizzazione” dell’aiuto, definito come un processo che “mira a riportare gli attori locali, siano essi organizzazioni della società civile o istituzioni pubbliche locali, al centro del sistema umanitario”.
Nel giugno dello scorso anno, i firmatari si sono riuniti per fare un bilancio di quanto elaborato e hanno deciso di prolungare il percorso con un “Grand Bargain 2.0”, che si promette proprio di fare progressi decisivi proprio sul tema della localizzazione. Tuttavia, anche con un’agenda più focalizzata, questo approccio dall’alto verso il basso non sembra riuscire a raggiungere accordi significativi verso la localizzazione poiché il processo del Grand Bargain stesso dipende da coloro che hanno il maggiore interesse a mantenere lo status quo delle gerarchie umanitarie e di fatto non sono disposti a un cambiamento che richiede lo smantellamento delle strutture di potere esistenti.
Il sistema degli aiuti internazionali ha funzionato a lungo come una gerarchia dominata dagli attori del nord del mondo – o, come si legge nel rapporto del 2016 sull’argomento, “una sorta di oligopolio di autogoverno formato principalmente da donatori occidentali, grandi donatori internazionali e agenzie governative”. Oltre a detenere il controllo di gran parte delle risorse finanziarie, questa “élite del sistema umanitario” esercitata il potere dominando il dibattito che definisce l’agenda dell’azione, escludendo le comunità locali dai finanziamenti diretti e dalle opportunità di leadership.
Il Grand Bargain presentava la localizzazione come un mezzo per riequilibrare queste asimmetrie di potere. Il Workstream 2 dell’accordo aveva di fatto già fissato l’obiettivo di destinare almeno il 25% dei finanziamenti umanitari ai soccorritori locali e nazionali nel “modo più diretto possibile” entro il 2020 mentre il Workstream 6 richiedeva una “rivoluzione della partecipazione” per incrementare il coinvolgimento delle comunità locali nelle risposte umanitarie. I sostenitori di questo approccio vedevano gli accordi come un meccanismo in grado di democratizzare la governance umanitaria trasferendo risorse e potere decisionale dalle élite alle entità umanitarie più integrate e in sintonia con i bisogni e le prospettive dei beneficiari degli aiuti.
Ma la localizzazione attraverso gli accordi del Grand Bargain è fallita su quasi tutti i piani. Il “Global Humanitarian Assistance Report 2020” rivela infatti che solo lo 0,5% dei finanziamenti monitorati nel 2019 ha finanziato direttamente le ONG locali e nazionali, ben lontano dall’obiettivo che le parti si erano date nel Grand Bargain. Anche laddove le organizzazioni internazionali hanno adottato modelli di finanziamento localizzato, le pratiche di partenariato internazionale-locale hanno continuato ad essere fortemente gerarchiche. In un survey del 2019 del consorzio Accelerating Localization through Partnerships, solo il 24% delle ONG locali e nazionali ha affermato che le partnership internazionali-locali sembravano “autentiche”.
Eppure il COVID-19 ha rappresentato un’opportunità mai vista nell’era del Grand Bargain per accelerare sulla localizzazione. Viste le restrizioni pandemiche, molti credevano che l’interruzione del modello standard di aiuti internazionali avrebbero fornito la spinta necessaria per trasformare la retorica del Grand Bargain in realtà. Un significativo calo della presenza umanitaria internazionale sul campo ha portato a ruoli ampliati per le organizzazioni locali nella fornitura di aiuti ma questa situazione non è stata utilizzata per mettere in campo cambiamenti significativi e di lungo periodo. Uno studio dell’Overseas Development Institute (ODI) sugli aiuto dopo la pandemia ha registrato pochissimi miglioramenti nell’allocazione delle risorse e del potere decisionale ai gruppi locali a sostegno delle loro maggiori responsabilità durante la pandemia.
Secondo i ricercatori l’approccio del Grand Bargain ha fallito come veicolo per democratizzare la governance umanitaria perché affida a coloro che sono al vertice delle gerarchie umanitarie l’onere di spostare il potere verso il basso non considerando che in un meccanismo come quello dell’aiuto internazionale l’interesse principale degli attori in campo risiede nel proteggere le influenze, i privilegi e le risorse che la loro posizione dominante concede loro. Di fatto lo studio mette in evidenza come l’autoconservazione sia un interesse trainante tra i donatori del nord del mondo e le organizzazioni internazionali. Ciò è fondamentalmente in conflitto con l’idea di localizzazione trasformativa, che richiede lo smantellamento delle gerarchie che sostengono queste organizzazioni e mette in discussione la loro influenza globale.
Sebbene il Grand Bargain non abbia prodotto risultati significativi, ha però concentrato l’attenzione sul tema e ha fatto mobilitare i gruppi locali che in alcuni casi si sono impegnati ad attuare il cambiamento al di fuori delle strutture internazionali formali. Lo studio dell’ODI identifica questa azione dal basso come una possibile forza trainante per il cambiamento. Fornire supporto finanziario e politico a queste iniziative locali potrebbe rappresentare un investimento più incisivo per favorire esempi virtuosi di localizzazione dell’aiuto piuttosto che arrivare a un Grand Bargain 3.0 che non riuscirebbe comunque a cambiare dall’alto le dinamiche radicate nel sistema umanitario.