La valutazione d’impatto e la gestione di programmi/progetti basata sulla rendicontazione dei risultati sono sicuramente l’orizzonte comune del variegato mondo del Terzo Settore (e non solo). Orizzonte che non sarà possibile raggiungere con un battito d’ali perché comporta processi di cambiamento importanti non soltanto a livello organizzativo, ma anche culturale, di sistema. Se il punto d’arrivo è abbastanza chiaro a tutti, molto più nebulosa è la strada per arrivarci e, soprattutto, quel che non si capisce è chi dovrebbe fare che cosa per conciliare al meglio le esigenze di valutazione e rendicontazione dei principali finanziatori con quelle dei soggetti finanziati.
Non c’è dubbio che i finanziatori in questa materia siano il soggetto più influente e che la soluzione non può essere semplicemente indicare nelle linee guida l’impatto tra le priorità strategiche e/o predisporre nuove procedure di finanziamento che richiedono agli enti finanziati di misurare l’impatto delle loro iniziative o di gestire il tutto in modalità “results based”. Spostare l’onere di gestire l’impatto integralmente in capo ai soggetti della società civile è uno degli errori più comuni che oggi vengono commessi nella gara a “chi impatta di più”, una modalità che non favorisce certo un cambiamento sistemico, ma che spinge inevitabilmente le organizzazioni a rispondere alle molteplici e diversificate richieste dei singoli donatori in modo strumentale e frammentario.
In questa fase gli enti del Terzo Settore, infatti, si trovano sempre più schiacciati fra le richieste dei finanziatori fra di loro incoerenti e spesso di difficile comprensione e la necessità di identificare degli obiettivi di strategia pluriennale interni misurabili e capaci di innescare un processo di apprendimento e di miglioramento continuo.
Le richieste troppo rigide da parte dei finanziatori in termini di risultati e/o di indicatori (e di fonti di verifica e baseline survey, quest’ultime peraltro raramente finanziate) ottengono il risultato di obbligare gli ETS a “piegare la realtà” a tali richieste, finendo per semplificarla eccessivamente, obbligando a rinunciare ad approcci innovativi e sperimentali e a uniformare la progettazione dentro schemi prefissati e omologanti. Ci troveremo di conseguenza ad avere progetti più distanti dalla realtà, molto simili fra di loro e “scritti male”, che quindi porteranno necessariamente a grossi problemi in fase di implementazione e di valutazione. Per converso, eccessiva libertà nella presentazione di proposte ai bandi vanificherebbe innanzitutto la possibilità di selezionare le proposte migliori, ma successivamente ne renderebbe impossibile la valutazione in fase di implementazione e a fine progetto.
Cosa fare allora per sbrogliare la matassa e mettere in campo possibili soluzioni? Le maggiori possibilità di azione sono ancora in capo al finanziatore, il che ovviamente non annulla la parte di responsabilità degli ETS.
Non ha senso chiedere a un singolo progetto di realizzare cambiamenti a livello di impatto/obiettivo generale così come chiedere ai soggetti finanziati di rendicontare indicatori di risultato a livello di impatto/obiettivo generale. Il finanziatore potrebbe invece fissare anticipatamente l’impatto/obiettivo generale a livello di strategia pluriennale, meglio se incardinata su una Theory of Change strutturata e dettagliata, che preveda indicatori di risultato per ciascun outcome di lungo e di medio periodo (sotto-obiettivi a livello di “obiettivo generale” e “specifico”). Non basta, in altre parole, che scrivano pagine di strategia se non arrivano a definire i risultati agli ultimi due livelli della results chain nella tabella sottostante.
Ciò consentirebbe loro di identificare per gli anni a venire una serie di sotto-priorità a livello di outcome di medio periodo/obiettivo specifico per ciascun impatto/obiettivo generale prioritario fissato e di vincolare a tale elenco la scelta dei soggetti finanziati per tutta la durata della strategia. In altre parole, ciascuna di tali sotto-priorità risponderà alla domanda: “Quale cambiamento voglio poter osservare nella vita dei destinatari diretti del bando fra quelle necessarie a contribuire all’obiettivo generale/impatto della mia strategia pluriennale?”. Su questo livello di risultato il finanziatore dovrebbe fornire anche un elenco di indicatori obbligatori fra cui scegliere (non farli scegliere ai soggetti finanziati) per verificarne il raggiungimento. In pratica, anche gli obiettivi specifici/outcome di medio periodo (e il relativo set di indicatori) non sono definiti da chi è finanziato, ma scelti da un elenco prefissato e fornito dal finanziatore.
Per converso, è necessario e fondamentale lasciare totale libertà nei livelli sottostanti della catena dei risultati, a partire dalla scelta dagli outcome di breve periodo, pre-condizioni dell’outcome di medio periodo/obiettivo specifico, e dei relativi target degli indicatori (“quali altri soggetti devono cambiare e come affinché cambi la vita dei destinatari finali”), fino al livello di output, fermo restando il rigore e la qualità nella formulazione delle proposte, che l’ETS dovrà comunque giustificare e il finanziatore valutare in fase di full proposal. In sintesi: fino al livello di obiettivo specifico il finanziatore guida le scelte, sotto tale livello sarà l’ETS a scegliere la migliore strategia per realizzarlo, anche in coerenza con obiettivi e indicatori interni della propria strategia pluriennale.
In questo modo, chi finanzia ha la certezza di potere misurare ciò che conta, e cioè quanto, grazie ai progetti che finanzia, sta procedendo verso l’obiettivo o gli obiettivi generali/impatto che si è posto in fase di pianificazione strategica, senza perdere tempo dietro a tutti gli outcome e indicatori fino al livello di output (fermo restando che i soggetti finanziati dovranno rendicontarli comunque). Mentre chi è finanziato si troverebbe di fronte a un set limitato di risultati e indicatori obbligatori, ma già disponibili fra cui scegliere, con una forte semplificazione in termini di carico lavorativo e di chiarezza procedurale.
Se riuscissimo ad avvicinarci davvero all’orizzonte ideale, ci troveremmo probabilmente a interagire con un elenco di indicatori a livello di outcome di medio periodo/obiettivo specifico per ambito tematico (si potrebbero usare gli stessi degli SDGs e/o altri purché condivisi dalla stragrande maggioranza dei donatori pubblici e privati) a livello almeno nazionale. La loro valutazione (compresa la baseline survey) dovrebbe essere finanziata come lavoro preliminare, in itinere e finale di qualsiasi progetto. Sarebbe anche un mondo nel quale tutti gli attori in campo collaborano nella definizione di tali indicatori tematici a livello nazionale. (articolo di Christian Elevati & Elias Gerovasi – ChangeLab)
Se poi vi interessa approfondire ulteriormente queste tematiche, il 26 e il 27 novembre a Milano si terrà la Masterclass “Valutare l’impatto con la Teoria del Cambiamento”. Info e iscrizioni qui