La valutazione dei risultati e la sua più recente evoluzione – la valutazione dell’impatto generato – hanno preso la scena da diversi anni ormai anche nel Terzo Settore. Il fatto è molto positivo, perché sulla valutazione si gioca una parte importante del nostro futuro, dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) alla Cooperazione Internazionale. Tuttavia la cultura dominante, nel profit come nel non profit, nelle istituzioni pubbliche come nei donatori, è ancora fondamentalmente rinchiusa in una visione della valutazione burocratica, schiacciata sul presente e sul breve termine, estremamente autoreferenziale, essenzialmente basata sulla sfiducia reciproca (fra donatori ed ETS, fra personale della Pubblica Amministrazione assunto e politici eletti, fra ETS e aziende, fra Istituzioni e cittadini ecc.) e sulla fede cieca nell’azione in quanto tale.
Consapevole del fatto che sto generalizzando per semplicità, potrei sintetizzare la visione dominante così:
- è uno strumento di controllo del rispetto di regole e linee guida;
- si concentra sostanzialmente sull’efficienza, e quindi sulle attività svolte, sul costo delle attività e sui prodotti o servizi erogati grazie a tali attività; che cosa abbiamo cambiato effettivamente nella vita delle persone e quanto questi cambiamenti saranno a loro volta generativi, non è quasi mai dato sapersi;
- rappresenta uno dei documenti obbligatori da allegare alla rendicontazione economica dei progetti;
- non se ne capisce veramente il senso, poiché dei report di valutazione, una volta completati/consegnati, non se ne fa nulla nessuno, non guidano i futuri programmi o politiche (e in molti casi è meglio così, viste le ragioni che segnalerò qui di seguito) e quindi vengono vissuti per lo più come una scocciatura inevitabile;
- ogni referente, che sia politico o della filantropia privata, chiede indicatori di valutazione dei risultati/dell’impatto differenti, a volte da scegliere fra un set predefinito, altre volte con la richiesta vincolante che provengano da elenchi riconosciuti a livello internazionale; con la conseguenza che gli ETS devono ogni volta costruire sistemi di Monitoraggio e Valutazione diversi, che peraltro cambiano anche rapidamente negli anni;
- i modelli e i sistemi di valutazione nello stesso ambito (per esempio l’inclusione lavorativa di soggetti vulnerabili) sono differenti a seconda di chi finanzia/promuove i relativi interventi, con il risultato che non è possibile comparare gli interventi e la loro reale efficacia, benché spesso agiscano sulle stesse tipologie di soggetti e negli stessi territori;
- poiché le Linee Guida ministeriali su Bilancio e Impatto sociale chiedono espressamente di rendicontare i risultati a più livelli, la maggior parte degli ETS si trova per di più di fronte alla sfida di creare un set di indicatori di autovalutazione, che si aggiunge a quelli dei donatori descritti ai punti precedenti, andando a configurare un impegno organizzativo ed economico spesso insostenibile (si consideri anche la necessità di costruire una piattaforma digitale di acquisizione, elaborazione, gestione e comunicazione dei dati sugli indicatori di risultato);
- la conseguenza diretta è che molti, sconfortati dalla situazione sopra descritta, dedicano alla valutazione il budget e il tempo minore possibile, in modo tale da renderla sostenibile e di non togliere tempo all’operatività, al fare.
La conseguenza ultima e gravissima di questa visione dominante è la seguente: agiamo senza essere in grado di intercettare in modo condiviso con gli attori in campo le continue variazioni nei contesti di intervento e senza valutare le conseguenze di medio-lungo periodo di programmi, politiche o strategie. In pratica, guidiamo bendati.
Il sistema culturale nel quale operiamo è strutturato in modo tale da consolidare questa analisi. Si tratta di un sistema basato su un pensiero che Baricco definirebbe “novecentesco” e che Alessandro Cravera ha ben canonizzato nel suo libro “Allenarsi alla complessità” (EGEA, 2021). È un pensiero che appartiene a un mondo che non esiste più, ma che resiste strenuamente a ogni tentativo di cambiamento. E può spesso riuscire nel suo intento perché le strutture della società in cui viviamo, culturali e materiali, sono per lo più conformate a quel tipo di pensiero, dalle scuole alle aziende, dalle amministrazioni pubbliche al privato sociale.
Baricco individua 4 caratteristiche fondamentali dell’intelligenza novecentesca:
- “Ama lavorare con soluzioni stabili e di scarsissima flessibilità…
- Si fida di una particolare forma di sapere: quella specialistica…
- Procede a partire da alcuni principi solidissimi, che adotta come precetti indiscutibili e che non riesce a cambiare se non con cicli lentissimi… Non è un’intelligenza pragmatica, che cerca semplicemente la soluzione migliore…
- Si crede razionale, … fonda la sua forza sulla convinzione di agire secondo razionalità. Qui l’errore è doppio: credere, cartesianamente, che esista un’intelligenza razionale (che si possa capire e gestire la realtà con il solo meccanismo della ragione) e credere, in sovrappiù, di esserne una perfetta espressione, aliena da qualsiasi rigurgito irrazionale…”.
Cravera, dal canto suo, e in perfetta coerenza con l’analisi di Baricco, individua 4 caratteristiche dei sistemi complessi nei quali operiamo, che richiedono approcci e competenze in gran parte nuove rispetto a quelle con le quali ci troviamo attrezzati oggi. Provo a sintetizzarli qui di seguito, rimandando al bellissimo libro per un approfondimento:
- la non linearità nel modo in cui i differenti fenomeni/cambiamenti si influenzano, che implica l’impossibilità di scomporre ciascun fenomeno in catene input-output definite e costanti (determinismo); questo significa anche fare i conti con una dose molto alta di imprevedibilità;
- la causalità circolare, cioè il fatto che i fenomeni/cambiamenti si influenzano reciprocamente e retro-attivamente; il livello di interconnessione è altissimo e le relazioni si modificano costantemente fra di loro, mentre modificano il contesto e ne sono modificate;
- l’olismo, che comporta il fatto che siamo costretti a ragionare a livello di sistema e non delle singole parti che lo compongono;
- il costruttivismo, che pone l’attenzione sul fatto che le persone e le organizzazioni agiscono nei confronti delle cose o di altri soggetti in base al significato che questi hanno per loro e che tale significato è continuamente influenzato e co-generato dall’interazione sociale.
Ora, l’approccio prevalente oggi alla valutazione non è per nulla strutturato per rispondere alle caratteristiche dei sistemi complessi nei quali operiamo:
- ci obbliga a semplificare in catene input-output-outcome pre-definite e rigidamente immodificabili i cambiamenti che vogliamo generare nella società;
- non è in grado di intercettare, valorizzare e utilizzare i feedback che arrivano dal “fare” per rio-orientare rapidamente interventi e strategie, imponendo al contrario il rispetto delle catene di cui al punto precedente;
- isola parti limitate della realtà operando semplificazioni riduzionistiche, che finiscono per costringerci a lavorare su sistemi astratti, costruiti a tavolino davanti a un computer;
- si muove con approcci fortemente autoreferenziali, dove la partecipazione di tutti i principali attori in campo nel dare senso ai risultati raggiunti in tutte le fasi del ciclo di programma/progetto (dalla programmazione alla valutazione finale) è quasi sempre più evocata che sostanziale.
Analisi del tutto simili si trovano anche nell’articolo di Leni Wild (Ricercatrice dell’Overseas Development Institute – ODI) dedicato alla cooperazione internazionale e intitolato Doing development differently (Stanford Social Innovation Review, Spring 2021).
Le soluzioni di eccellenza che per fortuna sempre più si stanno diffondendo anche in Italia mettono al centro la co-programmazione di medio lungo periodo, su risultati e impatti analizzati a livello sistemico, con metodi e strumenti di valutazione condivisi da tutti gli attori in campo. Sono soluzioni estremamente flessibili, che cambiano e crescono in base ai feedback raccolti in modo strutturato e costante, aperti a modificare gli stessi risultati e strumenti/metodi di valutazione tutte le volte che è necessario. Si caratterizzano per piani di lavoro approfonditi e dettagliati a livello di outcome (come quelli centrati sullo sviluppo di una Theory of Change), basati sulle migliori informazioni/evidence disponibili al momento da parte degli stakeholders, ma costruiti già in partenza per apprendere continuamente dalle interazioni del sistema e per modificare rapidamente attività e output (e quindi l’impiego delle risorse/input) di conseguenza.
Questo significa che dobbiamo smettere di avere sistemi rigorosi di controllo a garanzia della legalità e della trasparenza nel modo in cui si spendono i soldi? Ovviamente no! Ma questi sistemi già esistono e sono peraltro pervasivi. Non è su questo piano che possiamo migliorare, se non attraverso una semplificazione normativa e una maggiore capacità di interazione dei “regulators”. L’ambito a tutt’oggi ancora molto scoperto riguarda un’alleanza fra tutti gli attori in campo per rendere efficace, prima che efficiente, la nostra volontà di essere agenti di cambiamento. Per fare un salto in questa direzione a mio parere occorre:
- attivare e moltiplicare tavoli di confronto nazionali e territoriali/tematici con mandati chiari e potere decisionale reale, sulla scia di quanto sta facendo Fondazione con il Sud, per mettere a sistema risorse, metodologie di intervento e attori in campo;
- lavorare come reti di associazioni per condividere standard minimi sulla qualità dei processi di valutazione più che sui singoli indicatori; gli indicatori spesso hanno la necessità di essere estremamente personalizzati, in quanto collegati ai soggetti in campo, allo specifico risultato e agli strumenti e alle fonti di verifica di quel particolare contesto di intervento, mentre la qualità dei processi di valutazione lavorerebbe trasversalmente su tutti i programmi/progetti;
- avviare un “piano Marshall” nazionale di formazione e capacity building su competenze di leadership, organizzative e gestionali, incluse quelle di monitoraggio e valutazione, in linea con l’approccio sistemico/complesso sopra descritto e rivolto alla Pubblica Amministrazione, agli ETS e al settore profit, con sessioni dedicate in modo mirato a ciascuno di questi 3 settori e sessioni trasversali, in cui i 3 settori dialogano e si confrontano;
- prevedere una quota di budget minimo/massimo (in percentuale sul valore complessivo dell’intervento) in tutti i programmi/progetti dedicata a monitoraggio in itinere e valutazione ex post e finanziarla al 100%; integrare sempre il lavoro di valutatori interni con quello di valutatori esterni.
Consapevole che si tratta di un argomento estremamente complesso e senza avere la pretesa di esaurirlo o di avere “la bacchetta magica”, invito tutti i lettori a interagire qui nei commenti e a favorire un dibattito di cui abbiamo estremo bisogno e con urgenza. Grazie fin d’ora a tutti coloro che contribuiranno. (A cura di Christian Elevati, Fondatore di Mapping Change)
L’università di Padova, con il suo corso in Cooperazione allo sviluppo in cui mi sono laureata, ha tentato di andare in questa direzione già anni fa, formando facilitatori di sviluppo comunitario. Purtroppo il mondo della cooperazione non ci ha mai accolto e tutti noi abbiamo dovuto adattarci ad altre professioni o percorsi di studio. È comunque positivo vedere che finalmente qualcuno ci pensa
Nei giorni scorsi leggevo la rubrica di Baricco citata nell’articolo e ritrovavo molto di ciò che siamo diventati dopo la nostra interfacoltà triennale: un insieme di competenze ed esperienze trasversali
Bravo Christian, hai toccato un punto che stiamo soffrendo molto negli utltimi tempi, adattarci agli indicatori, inventandoci il modo di far combaciare indicatori imposti come segnali di un cambiamento che non sempre riusciamo ad analizzare. Purtroppo troppo spesso rispondiamo a far felici i donatori invece che a comprendere come vanno i progetti che faticosamente vogliamo sviluppare rispondendo a vere esigenze richieste da chi dovrebbero essere i beneficiari.
Caro Christian, come sempre i temi che tratti sono interessanti e stimolano la riflessione. Visto che lo chiedi, raccolgo volentieri l’invito e mi lancio nella mischia del confronto che, per obiettivo di intrattenimento, prendo dalla parte più spigolosa. Non me ne vorrai.
D’accordo che il tema della valutazione oggi (solo oggi?) rischia di diventare un esercizio sterile, fine a se’ stesso, svolto frettolosamente e male solo per far contento qualcun altro. D’accordissimo che gli strumenti – culturali, prima ancora che metodologici – che usiamo oggi riflettono la struttura di un mondo che non c’è più. Ma siamo sicuri che la risposta a queste esigenze sia “un piano Marshall” per PA, ETS, ONG? E’ una proposta credibile? Davvero un altro tavolo di confronto ci aiuterà? Davvero crediamo che gli ETS e le ONG possano (e debbano) essere loro a trovare “standard minimi di qualità”? E nel frattempo che realizziamo questa rivoluzione, cosa si fa? Dobbiamo aspettare che sia finito il piano Marshall prima di pensare di poter fare qualcosa di sensato?
E, soprattutto, perché buttare via tutto quello che abbiamo adesso?
Perché non confrontarci in modo serio con la valutazione, per come la conosciamo oggi, con gli strumenti che abbiamo e con i mezzi disponibili. Si, ok, scarsi e imperfetti, ma è quello che c’è. Quindi prendiamo i nostri progetti, le nostre strategie, e prendiamoci la responsabilità di valutarli davvero, in modo serio e rigoroso. Abbiamo poco tempo? Ancora meno soldi? Facciamo con quello che c’è, ma facciamo.
Iniziamo con il dichiarare prima delle nostre azioni quale sarà il criterio che useremo per valutarci. Si, indicatori. Scegliamo quelli che sembrano più sensati, creiamone di nuovi se non ci piacciono quelli che già esistono. Ma scendiamo nel campo del confronto. Magari però consideriamo la possibilità di confrontarci con qualcun altro che già ha fatto cose simili. Questa sarebbe una rivoluzione copernicana: che i donatori chiedessero esplicitamente di inserire nelle proposte di progetto una rassegna dei principali interventi già realizzati simili a quello proposto, collocando la proposta rispetto alle esperienze passate presenti nella “letteratura” (accademica o meno).
Una volta definita la metrica di riferimento, semplicemente, misuriamo. E cerchiamo di farlo bene, usando con i numeri lo stesso rispetto che abbiamo imparato a dare alle persone, perché in quei numeri c’è una rappresentazione della realtà che abbiamo la pretesa di migliorare e delle persone che ci vivono. Certo, numeri e metriche le dobbiamo scegliere, raccogliere, gestire insieme alle persone, in modo da costruire un senso condiviso e non una tavola pitagorica. Ma non c’è niente di scabroso nei numeri. Per millenni l’uomo ha pensato che i numeri non servissero a capire il mondo. Poi Galileo ha immaginato che l’esperienza fisica potesse essere raccontata con i numeri, se trattati con metodo. E da quel momento l’uomo ha capito infinitamente meglio il mondo che vedeva e ha potuto immaginare quello che non aveva mai visto perché troppo piccolo e quello in cui era immerso perché troppo grande.
La complessità è la cifra del nostro tempo ed è difficile da gestire e anche solo da pensare. Però continuare a ripeterlo non ci fa andare molto avanti. Scegliere un indicatore e misurarlo vuol dire assumersi una responsabilità, vuol dire accettare il confronto con la realtà, accettare di sbagliare ma avendo definito chiaramente rispetto a cosa. Non scegliere, rimandare la palla sempre indietro dicendo “è più complesso” o, peggio ancora “non ho i soldi”, alla fine rischia di essere un modo per non fare una scelta, per non mettersi in discussione, per non rischiare di sbagliare.
Caro Paolo, non posso volertene perché stai spostando il tema su un piano che il mio articolo non tocca: cosa fare nel frattempo? Le mie valutazione sono finalizzate a stimolare una riflessione sul medio-lungo periodo, e volutamente. Altrimenti staremo sempre a lottare con il nuovo set di indicatori con cui fare i conti, ma non cambierà mai nulla.
Per cui, se vuoi volentieri ti dico cosa penso si possa fare “nel frattempo”. E ti stupirò, forse: sono molto d’accordo con la tua posizione. In sintesi, sottoscrivo questi tuoi passaggi: “Iniziamo con il dichiarare prima delle nostre azioni quale sarà il criterio che useremo per valutarci. Si, indicatori. Scegliamo quelli che sembrano più sensati, creiamone di nuovi se non ci piacciono quelli che già esistono. Ma scendiamo nel campo del confronto. Magari però consideriamo la possibilità di confrontarci con qualcun altro che già ha fatto cose simili… numeri e metriche le dobbiamo scegliere, raccogliere, gestire insieme alle persone, in modo da costruire un senso condiviso”.
Non ho quindi mai affermato che bisogna buttare tutto quello che abbiamo fatto finora. Anzi, ho sottolineato che vedo segnali molto incoraggianti. Non ho nemmeno mai scritto nulla contro “i numeri”.
Le scelte in valutazione si sono fatte, si fanno e si continueranno a fare. La questione che pongo è se possiamo spingere verso un approccio, prima di tutto culturale, che migliori queste scelte, rendendole più capaci di farci abitare la complessità nella quale operiamo.
Anche perché, Paolo, leggere il mio articolo con la lente “finché il cambiamento culturale non si impone, smettiamo di valutare”, sarebbe una follia 🙂
Caro Christian, sulla visione di lungo periodo sono d’accordo con te: servirebbero metodologie e strumenti che permettessero di rappresentare e gestire la complessità in modo diverso da come sappiamo fare oggi. La strada per arrivarci è certamente lunga, come dici, quindi l’importante è mettersi in moto! Grazie della risposta 🙂
Purtroppo i riferimenti accademici sulla supremazia della burocrazia applicata alla cooperazione allo sviluppo – d’altronde già destrutturato in antropologia dello sviluppo come sviluppo di chi?? vedi Olivier de Sardan e gli studi anni 90 sugli intermediari dello sviluppo e le dinamiche intrinseche a qualsiasi progetto di sviluppo..anche il più partecipativo e costruito dal basso..
oppure i riferimenti alla De-politicizzazione degli attori sociali ingabbiati anch’essi nella macchina della burocrazia dello sviluppo ..come indicato da Ferguson in The Antipolitics Machine https://en.wikipedia.org/wiki/The_Anti-Politics_Machine
fino ai disastri del Banco Mondiale (vedi Escobar e la Invenzione del Terzo Mondo)
Come fermare la macchina dello sviluppo senza cambiare il paradigma??
“Guidiamo bendati” e “sbandati”, mi verrebbe da aggiungere, sempre per citare un tuo studente.
Grazie Christian per queste riflessioni, che condivido in ogni aspetto. Quando lavoravo all’estero come responsabile di progetti di cooperazione, una volta in una piccola comunità di pescatori, dopo una missione di valutazione ROM-UE che fece la differenza, un pescatore leader della comunità mi disse: ” vedi Cecilia, per noi si tratta di cambiare il ‘chip mentale’; siamo troppo abituati a questo modo di vivere, a questo modo di agire; stiamo qui ad aspettare e non ci rendiamo conto che le risorse le abbiamo anche noi, e possiamo agire anche da soli e senza aspettare che ci arrivino ‘cose’ per ottenere risultati, per essere protagonisti del nostro cambiamento.” Ricordo che mi colpì tantissimo la sua riflessione e fu quando davvero compresi come un valutatore o una valutatrice (una giovane ragazza spagnola in quel contesto) possa contribuire a fare la differenza. Perché il cambiamento in quella comunità avvenne dopo alcune semplici domande poste in modo garbato dalla valutatrice: cambiamento in primis nel loro modo di agire.
Ad oggi, è vero, occorre guardare lontano (come mi diceva mio babbo quando ero piccola) per definire un obiettivo comune, che ci aiuti ad abitare la complessità per portare i cambiamenti che vogliamo, e ci porti a farlo nel modo migliore possibile. Sul “cosa fare”, mi sembrano ottime le tue proposte, soprattutto negli aspetti di trasversalità che mettono in dialogo e vanno a rafforzare ETS, PA, e anche aziende. Sono però consapevole che non avrebbe senso una serie di tavoli di discussione o reti ben concepite senza l’importante e strutturato accompagnamento alle organizzazioni su leadership e gestione dell’impatto, dalla dirigenza alla struttura operativa. Nella mio/nostro lavoro quotidiano vediamo quanta differenza si possa fare nell’ottica di cambiamento di quel ‘chip mentale’ lavorando insieme e dentro le organizzazioni, a vari livelli, e tenendo insieme pianificazione strategica, operatività dei progetti, monitoraggio e valutazione d’impatto (con ovviamente indicatori, raccolta e analisi dati). Ci vuole tempo e costanza, ma i risultati si vedono. E’ anche vero che spesso queste scelte dipendono da budget limitati, soprattutto per organizzazioni più piccole e meno strutturate o budget rigidi dettati dai donatori.
Allora sono d’accordo sul partire da quello che c’è: iniziamo con il semplice, facciamo delle scelte, decidiamo – nei programmi, nei progetti, nelle organizzazioni – quali sono gli obiettivi che ci diamo, i cambiamenti che intendiamo raggiungere, ma senza giocare ad essere onnipotenti, e troviamo certamente delle metriche che misurino poche cose ma importanti per la nostra pianificazione strategica. Impariamo a lavorare in questa direzione, comprendiamo perché è importante farlo, dimostriamo che funziona (a noi stessi ma anche ai donor), ciascuno nel ruolo che occupa e con le responsabilità che ha. Per chi svolge anche valutazioni, chiediamo con forza che ci vengano dedicati dei momenti di de-briefing collettivi, in cui sia possibile alimentare il dibattito all’interno dei progetti, magari ricostruendo le teorie sottese dai progetti, e limitando i danni fatti dai rapporti chiusi nei cassetti. Forse così capiremo sempre meglio cosa vuol dire ragionare per outcome, così come l’importanza della valutazione, della flessibilità e della collaborazione, fondamentali per gestire quella circolarità, non-linearità, olismo e costruttivismo dei sistemi complessi.
E noi come ChangeLab… Che ne dite, costruiamo una ToC? 😉
Trovo questo articolo molto motivante perché condivido fortemente le riflessioni che emergono e la strada prospettata verso una valutazione più “utile”.
Mi sono sempre chiesta chi leggesse i miei report e il sospetto che probabilmente non se li leggesse nessuno o comunque nessuno ne facesse tesoro mi è sempre balenato per la testa. E trovo conforto nel capire che non sono sola in questo pensiero.
Nel 2009 ho lavorato per una grande organizzazione internazionale per la realizzazione di un progetto. Fui anche incaricata della redazione del report di valutazione di quel progetto. Ecco, alla fine di un lungo e certosino lavoro, il mio capo mi chiese di omettere i punti di debolezza che avevo evidenziato. Questo perché il progetto apparisse impeccabile.
Un po’ di strada da allora è stata fatta. Ma molta ancora ne manca. Sia da un punto di vista di misurazione del valore che dal punto di vista dell’apprendimento (cosa ne facciamo di quello che misuriamo e valutiamo?).
Pochi mesi fa ho redatto un report per misurare il valore e l’effort del volontariato nell’organizzazione per cui attualmente lavoro. Il board non ha il coraggio di leggerlo per paura di confrontarsi con qualche notizia poco confortante.
Quindi ecco mi fa piacere ritrovarmi nel pensiero di questo articolo che da valore a un nuovo modo di misurare e valutare la complessità e che promuove l’utilizzo della valutazione per la crescita e l’apprendimento organizzativo.
Cara Silvia, tu tocchi un tema centrale della valutazione, anch’esso culturale, che discende in buona parte da come è stata intesa per lo più la valutazione fino a oggi: come uno strumento di controllo (e in alcuni casi di punizione… ). Con il risultato che le persone e le organizzazioni hanno il terrore di essere valutate. Anche per questo occorre un approccio radicalmente nuovo quale quello che ho cercato di descrivere. Mi spoingo anche oltre: occorre PREMIARE le persone che contribuiscono a realizzare valutazione professionali, oneste e trasparenti; occorre dare valore non solo a ciò che funziona, ma anche a ciò che è andato diversamente da come speravamo, quando la valutazione ci indica perché è successo e come potremmo intervenire per correggere il tiro rapidamente. E’ necessaria un’alleanza preventiva su questa premialità fra chi dona, chi stabilisce le regole di ingaggio, chi disegna le soluzioni e chi realizza gli interventi. Perché solo così si crea un circolo virtuoso di apprendimento continuo e di crescita nella possibilità di creare cambiamenti sostanziali e duraturi.
…per aiutare la causa delle “valutazioni” e delle le semantiche che soggiacciono ai progetti di cooperazione, con i suoi “attori” e courtiers , consiglio a tutti la lettura due testi fondamentali ben precedenti alla Theory of Change di recente pubblicizzazione ..ma non si parlava d’altronde di social change anche nella sociologia applicata dei primi anni 60??!! https://www.researchgate.net/publication/32972912_Anthropologie_et_developpement_Essai_en_socio-anthropologie_du_changement_social
https://apad-association.org/project/courtiers-en-developpement-les-villages-africains-en-quete-de-projets/
Christian..una domanda..ma qualcuno sta facendo una valutazione di impatto dei vari progetti finanziati dall UE in bilaterale agli Stati ( spesso semi dittatoriali e falsamente democratici..vedi Cambogia o Myanmar..) da parecchi anni a questa parte? Dico di impatto post progetto e di verifica che i progetti siano realmente serviti a cambiare qualcosa e se si in che termini ..e soprattutto per chi?? A me da sempre più l impressione che se da una parte ci finanziano (dico alle ONG..) i progetti per sostenere la democratizzazione e l’accesso ai diritti ..poi dall’altra ne riducono l’impatto finanziando in bilaterale dei governi corrotti che ridirezionano l’aiuto verso fini politici interni, di perennizazione del potere acquisito e di controllo sui cittadini..(Vietnam??ancora Cambogia..oppure vogliamo fare la valutazione degli aiuti alla causa Palestinese??o ad Haiti??dai meglio di no…) E se invece forse fosse vero che meglio lasciarli andare con le proprie gambe?? La Bolivia di Morales potrebbe essere un esempio? Li non è certo coin fondi dell UE che si è trasformato il sistema latifondista dei tierratenientes…
Insomma ma cosa hanno generato realmente tutti questi anni di cooperazione allo sviluppo? A me sembra che siamo diventati tutti parte dello stesso sistema che è oramai autoreferenziale e tecnicratico?..e non sono più sicuro che porti al cambio sociale e democratico..forse la strada è quella di ri-politicizzare il movimento delle OSC e della società civile..in senso internazionalista e di “controllo dei grandi donors”..insomma un po di concretezza no..anziche continuare a girare attorno a questioni di indicatori…
insomma forse qualche riflessione in più da fare sul sistema e le sovrastrutture..(oopps sempre Marx..in mezzo ai piedi!!)
Caro Albertworry, tocchi temi estremamente complessi e certamente centrali. Non possiedo le conoscenze e le competenze per risponderti a questo livello con delle certezze. Posso però, per quel che vale, dirti che cosa vedo dall’osservatorio che mi fornisce la mia esperienza lavorativa. Certamente ho visto anche io forze in campo contrastanti e molto potenti, ognuna delle quali tira verso il proprio interesse corporativo. Ma ho visto anche grandi risultati della cooperazione internazionale ottenuti con pochissimi mezzi da persone incredibili e con un approccio veramente partecipativo. Credo, sempre dal mio punto di vista, che sia una specie di lotta infinita, da quando esiste il mondo, fra chi ha a cuore il bene comune (non solo per solidarietà, ma perché sa che alla fine fa bene a tutti) e chi vive nella difesa autoreferenziale ed egocentrica dei propri interessi individuali o di categoria. Personalmente cerco, sempre nel mio micro-piccolo, di fare tutto quello che posso per sostenere i primi e recuperare tutti i secondi quando possibile; e di farlo cercando le alleanze più ampie possibili. La valutazione, come processo partecipativo, integrata da risultati di cambiamento di medio-lungo periodo e sistemici (quindi contrapposti a poteri costituiti e particolarismi) può essere uno strumento a sostegno dei primi.
Caro Christian, grazie per l’articolo, per il salto un suggerimento ulteriore: promuovere la cross reliance di audit, valutazioni etc. tra i vari donatori istituzionali, reportistica simile ma non coincidente risulta un enorme dispendio di energie (se ne era parlato per l’ex ante assessment di ECHO ma senza successo)
Grazie Dania, condivido in pieno la tua proposta: c’è una babele di reportistica da produrre ogni anno e ogni donatore ha le sue specifiche, mentre i contenuti “di sostanza” son quasi sempre gli stessi. Questo peraltro è vero anche a livello nazionale, non solo internazionale. A livello Paese Italia, il Registro Unico del Terzo Settore (RUNTS) avrebbe tutte le potenzialità per raccogliere quanto serve per una sorta di accreditamento degli Enti, cui tutti i finanziatori (innanzitutto nazionali, in prospettiva anche internazionali) potrebbero fare riferimento. Ma uso il condizionale perché il tanto annunciato RUNTS, che doveva partire ad aprile, ancora non si sa che fine abbia fatto… La strada è lunga.