La scorsa settimana l’inserto cartaceo del Corriere della Sera “Buone Notizie” ha dedicato uno speciale alla nostra indagine sullo stato di salute dei cooperanti italiani all’estero. Ve lo riproponiamo volentieri in modo che possa raggiungere tutti i colleghi impegnati sul campo nei paesi partner che in questo anno difficile stanno tenendo duro e gestendo situazione ulteriormente complicate dalla pandemia.
Cooperanti nell’era Covid: Silvia e i mille rimasti all’estero
I giovani «espatriati» impegnati nella cooperazione sono circa un migliaio. Un’indagine racconta la loro «resistenza» durante la pandemia. Le ong Ipsia, Mani Tese, Avsi e Mlal: il segreto è «fare rete»
Silvia Maraone lavora come cooperante per la ong Ipsia. L’8 marzo 2020 ha preso uno degli ultimi voli regolari per la Bosnia. «Ho lasciato la mia famiglia e i miei amici – racconta – rimanendo nell’ansia per quello che leggevo sui giornali. Qua i locali mi additavano come una portatrice della malattia in quanto italiana». Mesi di lavoro in due grandi campi profughi lungo la rotta balcanica, dove è ancora più difficile gestire l’espandersi della pandemia. «Le attività – aggiunge – sono state rimodulate nel tentativo quasi impossibile di rendere meno affollati gli spazi nei quali operiamo».
Diego Policarpi è impegnato in Bolivia per il Progetto Mondo Mlal. La chiusura delle frontiere gli ha impedito di tornare in Italia per salutare la sua famiglia. È riuscito a lavorare in sicurezza, grazie ai protocolli serrati che la sua ong ha messo in campo. «Il nostro progetto rafforza le comunità che lavorano nel turismo e l’artigianato. La situazione ha portato anche nuove opportunità: abbiamo realizzato campagne anti-Covid per le popolazioni che non avevano accesso alle informazioni e avviato un lavoro formativo virtuale».
Positivo è anche il bilancio di Samuele Tini, operatore di Mani Tese in Kenya dove vive con la sua famiglia. «Un anno complesso – racconta – ma ogni situazione, anche quella più buia, è occasione per crescere. Qua le ong hanno fatto squadra e grazie al coordinamento Coike le associazioni e gli operatori hanno risposto in maniera corale all’emergenza, favorendo lo scambio di informazioni e contatti con la locale sede dell’Agenzia per la cooperazione e l’ambasciata d’Italia».
Marco Perini, operatore di Avsi in Libano, è riuscito a tornare in Italia una volta nel 2020. Pure in Libano la pandemia ha picchiato duro in concomitanza con la tragica esplosione del 4 agosto a Beirut, ma le risposte non sono mancate anche grazie alla cooperazione italiana. Così Perini racconta le «chiusure degli uffici e le riduzioni drastiche delle presenze al lavoro», ma anche «la ricerca del migliore sistema per permettere a un ragazzo rifugiato sotto una tenda di continuare a studiare, magari incollato a un piccolo schermo del telefonino del padre», e naturalmente i «tantissimi incontri virtuali con la necessità di risolvere questioni reali».
Le storie di Silvia, Diego, Samuele e Marco hanno in comune la fatica del mestiere del cooperante che gli italiani sanno fare con passione e competenza. Molti di loro non rientrano in Italia da più di un anno e sono costretti ad affrontare la pandemia e le sue conseguenze in contesti complicati, con pochi mezzi a disposizione. Per capire che situazione vivono il portale Info Cooperazione ha svolto un’indagine su un campione di 250 professionisti: un numero molto significativo dal momento che si stima che sia rimasto all’estero meno di un migliaio di «espatriati». Quelli che le ong italiane e le altre realtà di cooperazione mandano a seguire i progetti finanziati sia dai privati sia dal pubblico.
«Volevamo raccontarli – spiega il curatore del sito Elias Gerovasi – e abbiamo pensato di chieder loro come stanno attraverso un questionario. Sono persone che lavorano sul campo, in contatto con le comunità, e il loro lavoro è in molti casi insostituibile». La ricerca conferma il quadro positivo del lavoro dei cooperanti italiani nonostante il contesto del tutto straordinario della pandemia. «Prima di tutto – spiega Gerovasi – c’è una forte motivazione personale e soddisfazione rispetto al proprio mestiere, anche in coloro che sono all’estero da molto tempo. Il titolo di studio degli espatriati è molto alto, anche se, come accade per molti altri mestieri, guadagnano meno dei colleghi di altri Paesi e hanno meno benefit». «C’è voglia di tornare alla normalità – aggiunge – perché senza mobilità umana è un mestiere difficile da svolgere». Anche per tirare ogni tanto il fiato e riabbracciare i propri cari in Italia: impresa complicata nel 2020.
Già dal primo lockdown Aoi (l’associazione che riunisce le ong italiane) ha creato un gruppo di lavoro per facilitare il rientro in sicurezza di chi ne avesse necessità, data la quasi totale assenza di voli commerciali, e molti sono riusciti a tornare grazie a questo lavoro. Alcuni poi sono ripartiti, altri rimangono tuttora bloccati dalla seconda ondata in condizioni ancora incerte. Tanti giovani sono pronti a prendere un volo, magari iniziando come spesso accade da un’esperienza di servizio civile all’estero, anch’esso sospeso. «C’è una professionalizzazione crescente – spiega Luca Piazzi di Ipsia che ha collaborato alla ricerca di Info Cooperazione – evidente anche dall’offerta formativa avanzata di master e corsi di laurea che preparano veri e propri project manager per gestire la forte complessità dei contesti in cui si opera. Il servizio civile è la frequente porta di ingresso per fare il cooperante. Molti giovani sono fermi ai box, impossibilitati a partire. Quando potremo di nuovo spostarci in sicurezza tornerà la normalità di un mestiere che molti sognano ancora di fare».
(Articolo di Giulio Sensi, pubblicato il 12 gennaio 2021 su Corriere della Sera (inserto Buone Notizie)