Fino ad oggi avevano raccontato la cooperazione soprattutto con lo slogan semplicistico del “aiutiamoli a casa loro”, quell’alternativa positiva e bipartisan al problematico flusso migratorio che viene sempre riproposta quando non si trovano soluzioni più facili a problemi complessi. Dal fronte governativo però nelle ultime settimane sta emergendo una nuova narrazione della cooperazione internazionale pur sempre incagliata nel dibattito su sbarchi e migrazioni.
Si tratta di un utilizzo strumentale della cooperazione al fine di ottenere accordi favorevoli ai rimpatri di migranti nei paesi di origine. Questo orizzonte, già presente nei retro pensieri di alcuni leader politici, è oggi chiaramente scritto su carta. Il Movimento 5 stelle lo ha inserito tra i 26 punti del suo programma elettorale per le europee mentre il ministro degli interni Salvini lo ha proposto nella bozza in via di approvazione del decreto sicurezza bis sotto forma di un Fondo per i rimpatri.
Partiamo da M5S che al punto 21 del programma per le elezioni europee del prossimo 26 maggio titola: “Cooperazione internazionale e accordi per i rimpatri: Promuoviamo i rimpatri volontari e incentiviamoli grazie ai fondi europei. La cooperazione internazionale e la politica di sviluppo rimuovano le cause profonde che portano un migrante a lasciare la propria terra”. Rimpatri e cooperazione sono pericolosamente assimilati nel documento dal quale emerge che il motivo esclusivo per fare cooperazione allo sviluppo resta quello di arginare il fenomeno migratorio.
Una visione sbagliata che cerca di legittimare l’automatismo +aiuti – migrazioni, un nesso ormai ampiamente smentito dai numeri. Le analisi più recenti sull’interazione tra aiuti e sviluppo economico mostrano che le ineguaglianze crescono nella fase iniziale del processo di sviluppo di un paese e che questo crea ulteriori aspirazioni per i nascenti ceti medi e li incoraggia a partire. Solo nel lungo periodo, quando il reddito medio di quel paese arriva a 6 mila dollari per abitante si inizia ad assistere a una diminuzione dell’emigrazione. Sulla base del tasso di crescita storico, un paese in via di sviluppo la raggiungerebbe nel 2198; se riuscisse a triplicarlo (una possibilità quanto mai remota) ce la farebbe nel 2067.
In questi ultimi giorni di campagna elettorale il tema dei rimpatri è stato anche scelto dal vice premier Di Maio come argomento di punta per pungolare il suo collega del Viminale. Un pressing a tutto campo sulla gestione dei flussi migratori, e le ripercussioni che questa avrebbe sotto il profilo della sicurezza. I rimpatri, ha sottolineato il pentastellato, sono al palo, e in Italia vivono 600mila irregolari. A stretto giro il collega vice premier leghista ha replicato: al massimo gli irregolari nel nostro paese sono 90mila, ha detto, contraddicendo quanto riportato nel contratto del governo del cambiamento, dove si parlava di rimpatriare 500mila persone irregolari.
Veniamo al decreto sicurezza bis che in queste ore sta mettendo a dura prova la tenuta del governo e del patto pre-elettorale tra Lega e 5stelle. Tra i provvedimenti del decreto figura la costituzione di un fondo per favorire i rimpatri dei migranti irregolari con una dotazione iniziale di 2 milioni di euro, per il 2019, cui si provvede, si legge nella bozza, «mediante corrispondente riduzione dello stanziamento del Fondo speciale di parte corrente iscritto, ai fini del bilancio triennale 2019 – 2021, nell’ambito del programma «Fondi di riserva e speciali» della missione «Fondi da ripartire» dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per l’anno 2019, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale». La dotazione del fondo potrà «essere incrementata da una quota annua non superiore a euro 50 milioni», individuata annualmente «con il decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze ivi previsto, sentito il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale».
Secondo la bozza il fondo andrebbe a “finanziare interventi di cooperazione mediante sostegno al bilancio generale o settoriale ovvero intese bilaterali, comunque denominate, con finalità premiali per la particolare collaborazione nel settore della riammissione di soggetti irregolari presenti sul territorio nazionale e provenienti da Stati non appartenenti all’Unione Europea”.
Tra le righe si legge la volontà di utilizzare risorse in qualche modo destinate alla cooperazione internazionale e magari rendicontarle come aiuto pubblico allo sviluppo, quella quota di APS gonfiato che già negli ultimi anni era stato abbondantemente speso per l’accoglienza dei rifugiati nel paese donatore. Il regolamento OCSE DAC potrebbe offrire lo spazio per questo tipo di manovre. Si possono infatti considerare come APS le spese per il “trasporto in caso di reinsediamento, o il rimpatrio volontario verso un paese in via di sviluppo entro i 12 mesi della richiesta”.
Sulla strada dei rimpatri però pesa anche il recente pronunciamento della Corte di Giustizia Europea che interpreta in maniera estensiva la Convenzione di Ginevra. Un rifugiato in fuga da un paese in cui rischia la tortura o di subire trattamenti inumani, vietati dalla Convenzione di Ginevra, non può essere rimpatriato o respinto in quello stesso paese anche se lo status di rifugiato gli viene negato o revocato dallo Stato ospitante per validi motivi di sicurezza. Così recita la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, secondo cui la Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione vieta il respingimento di un cittadino extra-Ue o apolide verso un paese che minaccia la sua vita o la sua libertà.