Il dibattito sulla valutazione dell’impatto sociale è particolarmente caldo da qualche anno anche in Italia, complici alcuni fenomeni di contesto quali la riforma del Terzo Settore e della Cooperazione Internazionale, la diminuzione progressiva dei finanziamenti pubblici e l’affacciarsi di nuovi strumenti quali la finanza a impatto, l’attenzione crescente delle aziende alla ricaduta sociale della propria attività, l’attacco al sociale da parte di alcune correnti ideologiche e politiche, l’aumento della complessità dei contesti in cui operiamo.
Tutto ciò ha portato, come già ricordato da altri commentatori, a un duplice risultato: 1) vi è una crescente e rinnovata attenzione alla capacità di dimostrare in modo rigoroso il reale cambiamento generato, la sua sostenibilità nel tempo e il suo essere “generativo”; 2) si è creata una babele di approcci e definizioni che vanno dall’autentico intento di divulgare metodologie anche al grande pubblico, per affermarle a tutti i livelli (fuori da logiche elitarie), alla superficialità che segue la moda del momento, fino all’arroccarsi su un unico modello di valutazione quasi fosse il dogma indiscutibile, buono per tutte le stagioni.
Una delle confusioni che io trovo più frequente e meno dibattuta è quella fra i cambiamenti in termini di outcome di medio e breve periodo e l’impatto vero e proprio (outcome di lungo periodo), a 1 o più anni dal termine dei progetti, programmi o interventi. Fra i primi responsabili di questa confusione, alcuni donor, che chiedono di indicare nei quadri logici “indicatori oggettivamente verificabili” a livello di “Obiettivo generale/impatto”. In effetti, i problemi maggiori relativi a questa confusione si riscontrano proprio a livello di progetto. Un altro ambito in cui noto una confusione in parte simile è quello dei Bilanci Sociali (sempre più spesso chiamati “Bilancio d’impatto”).
Partiamo dal progetto. La domanda da porsi dovrebbe essere: con le risorse di progetto (tempo, budget, persone, competenze), quali cambiamenti a livello di outcome posso realisticamente sperare di generare e valutare nel tempo di vita del progetto e direttamente (come capofila, come partner e insieme agli altri soggetti direttamente coinvolti)? Il livello del Quadro Logico maggiormente deputato a rispondere a questa domanda dovrebbe essere quello dell’Obiettivo specifico/Outcome(s). L’indicazione dell’Obiettivo Generale/Impact resta importante a mio avviso solo nella misura in cui ci costringe a collegare il singolo progetto sia alla strategia complessiva dell’organizzazione (e qui risulta fondamentale avere sviluppato una propria Theory of Change interna) sia a quella del donatore, trovando così il migliore punto di incontro possibile. Non ha invece alcun senso, in un QL e nel tempo di vita del progetto, chiedere (e non finanziare) una valutazione d’impatto vera e propria (con relativi indicatori), che richiederebbe la possibilità di valutare gli effetti del progetto appunto dopo almeno un anno dalla fine dello stesso.
Un ragionamento analogo lo si può applicare ai cosiddetti “Bilanci d’impatto”. Se io sto valutando i cambiamenti in termini di outcome che ho generato l’anno precedente con l’attività complessiva della mia organizzazione, sono ancora nel breve periodo, a rigore non dovrei parlare di “impatto”, ma certamente potrei parlare di cambiamenti in termini di outcome (e anche in questo caso l’avere sviluppato una Theory of Change interna risulta fondamentale). Il che sarebbe già un salto qualitativo molto importante rispetto ai Bilanci Sociali classici, che mediamente si fermano a valutare gli output (il numero di bambini vaccinati, di scuole costruite, di infermieri formati, di riso locale prodotto e venduto ecc.).
Una valutazione d’impatto a uno o più anni dal termine delle attività valutate dovrebbe tenere in considerazione – rispetto agli outcome – anche aspetti quali la sostenibilità (sociale, economica, politica, tecnologica… ) e la “generatività” (quanto il cambiamento prodotto ha innescato altri cambiamenti a livello di outcome, positivi o negativi, previsti o imprevisti e in quali soggetti). Dovrebbe, in sintesi, valutare i risultati “alla prova del tempo” e su scala più ampia. Il che significa anche che dovrebbe prevedere risorse dedicate e strumenti e competenze specifiche, che in parte coincidono con quelle per la valutazione degli outcome di breve-medio periodo (per esempio, la Theory of Change risulta particolarmente utile anche per la fase di disegno del modello valutativo dell’impatto), e in parte no (richiedono anche altro).
a cura di Christian Elevati
Condivisibile l’argomento che la valutazione di impatto necessiti l’assegnazione di risorse specifiche, aspetto che in fase di progettazione può essere previsto già nel disegno valutativo, proprio considerando che è il finanziatore che lo richiede. Un sintetico esempio: se gli output (formazione) hanno effettivamente migliorato le conoscenze mancanti dei destinatori (outcome intermedio) e queste conoscenze sono risultate utili per il mercato del lavoro (outcome), i beneficiari del progetto, rispetto ad un gruppo di controllo con stesse caratteristiche, hanno maggiori capacità di creare reddito (impatto). Se l’esemio si sposta sui diritti umani, l’outcome delle conoscenze acquisti sarebbero utili per tutelare la propria sfera giuridica, e l’impatto sarebbe valutato nel riscontrare con metodo controfattuale, quanto è migliorarata la capacità di tutela. Cambierebbe solo l’indicatore da usare come proxy della variabile dipendente, il quale sarebbe condizionato da fattori esogeni, cioè gli effettivi strumenti di tutela itituzionali a disposisione in quel determinato contesto.