Potremmo definirlo uno stravolgimento. Che sta cambiando i connotati dell’attività della cooperazione internazionale amplificando la sua dimensione organizzativa e ampliando la ricerca di profili professionali solitamente appannaggio del mondo profit. Una ricerca che spesso diventa occasione di inserimento nel mondo lavorativo per i giovani: attratti dalle Ong come volontari (sono migliaia) o per l’anno di servizio civile, che sia nazionale o europeo. Storicamente legate ai finanziamenti per programma di sostegno all’estero in contesti di crisi, le Ong stanno ora progressivamente cambiando pelle e missione, orientandosi anche sui progetti per contrastare la povertà e l’esclusione sociale in Italia e nei Paesi occidentali.
È un ribaltamento della concezione meramente assistenziale concentrata soltanto sulle situazioni di guerra e carestia che le organizzazioni non governative hanno sempre avuto. Lo schema classico — finanziamento pubblico o contributo privato effettuato tramite donazioni per finanziare scuole e sanità nei Paesi in via di sviluppo — non è più l’unico, pur essendo ancora molto presente. Racconta Marco De Ponte, segretario generale di ActionAid, che la nuova frontiera delle Ong è «l’attività di monitoraggio delle corrette implementazioni delle politiche pubbliche dedicate al Terzo settore», delle «ricadute a valle dei progetti di sostegno per aiutare le popolazioni colpite, ad esempio, dai terremoti del 2009 (L’Aquila) e il 2016 (nel reatino)».
Così nella cooperazione internazionale crescono a dismisura le funzioni di staff — dalla comunicazione al marketing, alla raccolta fondi fino all’assistenza legale, alla consulenza informatica, alle costruzioni di lobby in Parlamento — alle quali si accompagnano i professionisti e i volontari che lavorano sul territorio come operatori socio-sanitari. Mentre si moltiplicano gli allarmi per la «jobless society» che rischiamo di costruire con il trionfo dell’automazione industriale e l’utilizzo sempre maggiore dell’intelligenza artificiale, le organizzazioni non governative sembrano porsi in una situazione anti-ciclica. L’ultimo dato del sito Info Cooperazione riporta una tendenza positiva nell’offerta di lavoro del settore. La pubblicazione di posizioni vacanti da parte delle Ong è aumentata ulteriormente del 10% negli ultimi dodici mesi toccando quasi mille posizioni pubblicate. In un settore polverizzato in decine di attori in cui continuano a farla da padrone le associazioni/federazioni internazionali (in Italia le più importanti per somme gestite sono Save the Children, Unicef, Medici Senza Frontiere, Intersos, Emergency, ActionAid, Fondazione Avsi, Cisp, Coopi e Cuamm) gli addetti sono più di duemila, oltre ai 15mila che a vario titolo operano all’estero. Tra le figure più richieste quelle del project manager, del responsabile paese e amministratore. In crescita le posizioni legate alla raccolta fondi e alla comunicazione, come web marketing e social media.
Un dato nuovo e interessante riguarda l’apertura di oltre 50 opportunità nel Sud Italia per lo più legate a progetti di assistenza profughi e richiedenti asilo tra Sicilia e Calabria. L’Agenzia Italiana per la cooperazione co-finanzia una parte dei progetti delle organizzazioni non governative in Italia e all’estero. Sta agendo da pungolo e da cabina di regia, consolidando il settore ed è utile soprattutto per i giovani che hanno tentato di costruire una professione negli ultimi tre anni, complice anche la riforma del Jobs Act che ha comportato la riduzione della formula del contratto a progetto (co.co.pro). Soltanto nel 2016 il contratto a tutele crescenti ha avuto un boom (+14% rispetto all’anno precedente) in controtendenza con le dinamiche complessive dell’occupazione in cui per i nuovi contratti domina ancora il tempo determinato. Sono state ridotte anche le collaborazioni a partita Iva, che nelle organizzazioni non governative rischiano di configurarsi come finte consulenze in regime di mono-committenza (-12% rispetto al 2015). Certo non tutto funziona a dovere, anche perché le organizzazioni di cooperazione internazionale qualche volta provvedono persino a svolgere funzioni di sussidiarietà a causa delle mancanze del welfare statale: ma non è questa la loro missione principale e pertanto rischiano di sovrapporsi con una serie di organizzazioni/istituzioni no-profit che già presidiano il campo. Ciò però permette in questo settore una maggiore mobilità del mercato del lavoro, con una serie di figure che ormai transitano dal profit al no-profit soprattutto se si è equipaggiati di caratteristiche organizzative.
Elias Gerovasi, curatore del sito Open Cooperazione e operatore di Mani Tese, rileva che «sono molto ricercati gli agronomi, perché gran parte dei progetti delle organizzazioni di cooperazione affrontano la filiera alimentare e le coltivazioni, dalla qualità del cibo alle materie prime. Ma sta crescendo anche la domanda di esperti di energie rinnovabili per la realizzazione di progetti che abbiano risvolti eco-sostenibili» in Paesi dove le commodity non mancano, ma a latitare sono le competenze e un sistema industriale in grado di portare a valle i programmi. È chiaro però che il motore di ogni attività, visti i rari incentivi pubblici, sono le donazioni dei privati che sostengono le attività di cooperazione. Incoraggiate soprattutto dai contributi volontari esplicitati nelle dichiarazioni annuali dei redditi. Per questo «la ricerca-fondi e l’attività di promozione sono vitali per organizzazioni che così si auto-sostengono. Ma siamo sempre più alla ricerca anche di esperti di dati perché la nuova normativa sulla privacy impone degli specialisti nell’analisi qualitativa dei dati», spiega Pierfrancesco Drago, direttore sviluppo organizzativo della filiale italiana di Medici Senza Frontiere.
La figura del «dialogatore», diventata celebre con Emergency e ampiamente usata da Save the Children, assume ancora un ruolo strategico. Il dialogatore è un motivatore. Cerca di coinvolgere le persone, tramite presidi e banchetti (interazione face-to-face), a sostenere economicamente le iniziative, presentandole e spiegandole in maniera emotivamente coinvolgente. A tal fine sono nati diversi master in cooperazione internazionale e in strategie d’integrazione: dalla Cattolica di Milano all’università di Pavia, dalla Sapienza di Roma alla Ca’ Foscari di Venezia, dalla Luiss alla Bocconi. Perché la domanda di profili è in crescita e le università più illuminate e con una maggiore curvatura internazionale stanno investendo sui loro uffici placement per intercettare l’offerta del mercato. È innegabile però che molti si avvicinino al mondo della cooperazione dopo aver svolto il servizio civile. Ogni anno lo Stato mette a bando migliaia di posizioni (nel 2018 le posizioni aperte sono oltre 53mila per i giovani tra i 18 e i 28 anni) che prevedono l’erogazione di un rimborso spese mensile di circa 450 euro e permette di avere un’opportunità per entrare nel terzo settore. Alcuni, circa 5mila, vanno all’estero ogni anno. È un test per capire se la cooperazione internazionale possa tramutarsi nell’obiettivo di una vita.
(articolo di Fabio Savelli, pubblicato su Corriere Buone Notizie del 4 settembre 2018)