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Basta sofferenza e più verità, così cambia la comunicazione delle Ong

«Sotto assedio». Così si sentono, da un po’ di tempo a questa parte, le organizzazioni non governative. Bersagliate dagli attacchi pubblici e dalle generalizzazioni, umiliate da alcuni scandali imperdonabili, messe all’angolo dalla crisi politica e da quella economica, che insieme hanno rallentato drasticamente il flusso di fondi e creato una diffusa sfiducia nel loro operato. È inevitabile che in un simile scenario, oggi s’imponga un cambio drastico nelle strategie di comunicazione verso la pubblica opinione e le istituzioni. Banditi i volti sofferenti e le pance gonfie dei bambini africani, oggi si punta sui social network per raccogliere fondi e arruolare volontari ma anche per raccontare un’altra verità: quella di un lavoro costante e faticoso sul campo.

«Era già in corso da tempo una nuova narrazione, perché i contesti in cui operiamo sono molto cambiati rispetto agli anni Ottanta-Novanta: non si parla più di aiuto ai poveri e di beneficenza, ma di partnership e cooperazione – spiega Elias Gerovasi, operatore di Mani Tese e curatore di Info Cooperazione, il blog degli operatori del settore – C’è un pre-2017 e un post 2017 nel mondo della comunicazione. Da un anno a questa parte la percezione del lavoro delle Ong è ribaltata, siamo stati travolti dalle polemiche e dalle strumentalizzazioni politiche. Se prima dovevamo confrontarci con un’opinione pubblica neutra, perché poco informata o favorevole al nostro operato, oggi è ostica, diffidente, quasi aizzata contro le Ong. In questo contesto comunicativo radicalmente cambiato, la priorità per noi è ristabilire la verità. Cioè spiegare cosa facciamo veramente».

 

Serve una trasformazione

Che sia necessaria una trasformazione profonda è convinto Emilio Ciarlo, responsabile di Comunicazione e Relazioni internazionali dell’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo, nata nel 2016 sotto l’ala del ministero degli Esteri: «Su sviluppo e cooperazione vedo una comunicazione vecchia – basata su solidarietà, paternalismo e slogan furbi come “aiutarli a casa loro” – che arriva sempre e solo alle stesse persone e non ci porterà lontano. È tutto da ripensare. Aics ha appena appena iniziato, lavorando su tre piani: contenuti di maggiore qualità con il nostro blogazine Oltremare che aspira a diventare quel luogo di approfondimento su questi temi che manca in Italia; il lavoro da settembre di un gruppo di sociologi, antropologi, giornalisti e comunicatori che si sintonizzi sul nuovo spirito del tempo e riformuli una narrazione popolare e non elitaria; un’identità grafica più forte e meno convenzionale». Non è facile raccontare la realtà della cooperazione istituzionale e delle Ong, senza cadere nel facile pietismo e restare intrappolati dalle polemiche quotidiane. Lo sa bene Nino Santomartino, coordinatore per Aoi (associazione delle ong italiane) del Tavolo sull’utilizzo delle immagini nelle campagne di comunicazione e di fundraising, che identifica quattro punti chiave: «Non si può più comunicare solo per raccogliere fondi – spiega – Bisogna invece ricominciare a parlare dei grandi temi, dire la nostra sulle scelte strategiche che interessano il Paese, senza limitarci a sfornare cifre e auto-elogiarci. Dobbiamo comunicare in modo costante quello che pensiamo e non solo saltuariamente quando c’è una crisi di credibilità o di finanziamenti. Dobbiamo parlare con il linguaggio della gente, al cuore delle persone, perché è da lì che poi vengono le Ong, nate negli anni Sessanta e Settanta proprio dalla società civile. Infine, dobbiamo costruire nel tempo un rapporto di fiducia con le persone».

 

La riconoscenza

Comunicare è una sfida? «Sì, ma è anche un dovere per dimostrare rispetto e riconoscenza a tutti i volontari, che sono la parte più bella del nostro Paese». È sulla nuova rappresentazione del lavoro delle Ong su cui punta anche Cinzia Giudici, presidente di Cosv e membro del consiglio direttivo di Link 2007, che assieme ad Aoi ha aderito al codice dell’Istituto di Autodisciplina pubblicitaria. «In passato – dice – si parlava dei Paesi meno sviluppati, e dell’Africa in particolare, solo in termini di disgrazie, miseria, violenza, il che alla fine ha avuto un esito molto negativo sulla nostra comunicazione. Non tutta l’Africa è così, noi vogliamo raccontare un continente che a livello culturale, sociale e istituzionale ha già raggiunto livelli molto evoluti. Non è facile contrastare il messaggio per cui dall’Africa arrivano solo disgrazie e criminalità o la visione dominante del “ci portano via il lavoro”. Per farlo abbiamo deciso di dare più spazio alla testimonianza diretta di persone e situazioni che svelano un’Africa in crescita, capace di risolvere i problemi, stando però sempre attenti a non “vendere” l’Africa come un prodotto, inseguendo meccanismi pubblicitari. Lo riteniamo inaccettabile».

 

Niente pance gonfie

Al bando i bambini con le pance gonfie, ma anche quelli che sorridono ammiccando ai possibili donatori. Sulla strategia di fondo – pubblicità si, pubblicità no – non sempre le Ong hanno viaggiate unite. Amref, che fin dagli anni Novanta ha voluto ribaltare la percezione dell’opinione pubblica sull’Africa, proprio attraverso gli spot ha ottenuto grande successo di immagine, anche grazie al carisma di Giobbe Covatta e alla sua frase virale «Basta poco, che ce vò». Il contesto è cambiato anche per loro: «La Tv è molto meno accessibile, l’utente è sovrastimolato, il clima è ostile e l’opinione pubblica vede l’Africa come una terra di invasori – conferma Enrica Arcangeli, coordinatrice della raccolta fondi di Amref – Tutto ciò ci obbliga a cambiare strategia, smorzando la vena comica e puntando più su quella emotiva, e sfruttando nuovi canali come abbiamo fatto con la staffetta digitale di Lercio».

 

Slogan travisato

E a chi li accusa per quello slogan – «aiutiamoli a casa loro» -risponde: «È stato completamente travisato, la migrazione deve essere una scelta, abbiamo il dovere di aiutarli a costruire un contesto dignitoso laddove sono nati, ma questo non significa che non li vogliamo qui». Ai social network si affida anche, seppure in modo radicalmente diverso, la ong Oxfam, che vuole riconquistare la credibilità perduta dopo i ripetuti scandali di cui si sono resi responsabili alcuni dei suoi operatori internazionali. «Non abbiamo mai fatto pubblicità in senso stretto, piuttosto cerchiamo di comunicare attraverso i nostri contenuti: ogni giorno lanciamo tre tweets per spiegare quello che facciamo, lasciando parlare gli operatori e le comunità in cui lavoriamo, raccontando storie dal campo – spiega il direttore di Oxfam Italia Roberto Barbieri – Rispondiamo così agli attacchi indistinti e alle generalizzazioni, che minano la fiducia della gente nei nostri confronti. Il nostro è l’unico settore in cui un caso singolo distrugge la credibilità di tutti».

(di Sara Gandolfi pubblicato su Corriere Buone Notizie del 21 agosto 2018)

 


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