Sono anni in cui questa domanda ritorna ciclicamente a farsi sentire tra gli operatori del settore e ogni volta riparte un dibattito che avrà bisogno di anni prima di trovare la via d’uscita. Questa volta a innescarlo sono stati gli stessi manager di alcune importanti ONG internazionali (Oxfam GB, World Vision, ecc) durante una conferenza organizzata dall’associazione delle ONG inglesi BOND. Il tutto amplificato da un articolo apparso ieri sulle pagine online del Guardian che da diversi anni dedica spazio al dibattito sul futuro delle ONG e della Cooperazione. Nulla di nuovo sotto questo cielo, ma vale la pena di proporvi anche questo articolo che porta ulteriori spunti di riflessione e ci chiarisce quali sono le domande di questo settore a livello internazionale. A noi il compito di guardarci intorno e contestualizzare il tutto anche alla luce di quanto sta accadendo anche a livello italiano.
Dopo 60 anni di cooperazione allo sviluppo è il momento per le INGOs (ONG internazionali) di farsi delle domande difficili sul potere che dovrebbero devolvere.
E’ altamente improbabile che i manager aziendali si chiedano regolarmente se il loro business abbia diritto di esistere. Il loro obiettivo è quello di vendere beni e realizzare un profitto. Ma se il vostro obiettivo è quello di alleviare la povertà e la sofferenza umana – di fronte a statistiche che mostrano risultati contrastanti – allora questa è la domanda più importante che una ONG internazionale debba porsi. Alla conferenza organizzata da BOND la scorsa settimana, in una sessione sul futuro delle ONG, Penny Lawrence, vice direttrice di Oxfam GB, ha dichiarato senza mezzi termini: “Abbiamo bisogno di guadagnarci il diritto di sopravvivere al futuro”.
Un settore afflitto da preoccupazioni circa la propria accountability ed efficacia con contraccolpi importanti in patria come all’estero, è del tutto chiaro che qualcosa stia cambiando. Oxfam International sta spostando la sua sede a Nairobi. ActionAid si è trasferita a Johannesburg già da tempo, mentre Amnesty International sta organizzando il proprio decentramento in fretta e furia. Ma a parte un rimescolamento del personale dirigente e dello staff, nessuno – con la straordinaria eccezione di EveryChild (un INGO che si occupa di diritti dei bambini) – si era spinto fino al punto di porre la domanda “abbiamo ancora diritto di esistere?”
Il Professor Robert Chambers, in un suo recente libro sulla cooperazione, riflette sulla considerazione che l’ascolto e la partecipazione non sono più sufficienti: l’idea di empowerment significa che oggi alcune istituzioni devono devolvere una parte del loro potere. Il libro ragiona sul paradigma urbano/rurale e nord/sud, ma la sua tesi generale che risuona molto ampiamente nelle pagine individua la vera sfida dello sviluppo nella devoluzione del potere. Negli ultimi decenni in pochi hanno fatto qualcosa in questo senso al di là delle parole.
Ironia della sorte, qualcuno sostiene che proprio quel potere acquisito abbia impedito alle INGOs di ottenere a pieno i propri risultati. Ben Ramalingam, dell’Institute of Development Studies, sostiene che le INGOS abbiano smesso di rischiare proprio da quando frequentano i corridoi del potere e gestiscono tanti fondi, preferendo pacificare tutti e rinunciando al cambiamento. Beris Gwynne, l’ex direttore di World Vision International è d’accordo e rincara la dose “Ormai siamo abituati a essere in affari, così siamo diventati sempre meno coraggiosi”. Se la devoluzione è ciò che è necessario, è già una buona cosa saperlo riconoscere anche se metterla in pratica sembra una sfida ancora più grande.
Si dice che dei 150 miliardi di dollari spesi in aiuti a livello mondiale, solo l’1% arrivi davvero nel sud del mondo. So per esperienza quanto le ONG locali trovino frustrante vedere che ci sono sempre soldi per scrivere una report o ospitare un workshop e mai abbastanza per assumere più personale locale. Se la povertà potesse diminuire scrivendo report, allora avremmo risolto il problema molto tempo fa.
Decentrare il potere e guadagnarsi il diritto di esistere richiederà affrontare alcuni paradossi impegnativi: Le INGOs sanno che hanno bisogno di prendere più rischi, ma allo stesso tempo i donatori chiedono più controllo. Sanno che c’è bisogno di collaborare di più, sanno che dovrebbero ascoltare e facilitare, ma hanno ancora il budget e il potere di decidere cosa fare con quello che hanno sentito.
Forse un modo pratico per fare un passo avanti sarebbe quello di dare una risposta alla domanda più topica: qual è il valore aggiunto delle INGOs e che cosa dovrebbero delegare ad altri? Oppure rispondere alla provocazione di un partecipante alla conferenza: “Un povero sarebbe disposto a pagare per i vostri servizi?” E ancora, “se fossi una contadina povera preferirei che i soldi siano spesi per scrivere un documento per il prossimo high level UN panel o preferirei che mi venga consegnato l’assegno equivalente (una somma più alta di anni di lavoro) per fare quello che credo meglio? Quale di queste due azioni la renderà meno povera, ora e in futuro? Dopo più di 60 anni di pratica della cooperazione allo sviluppo, è davvero difficile da dire.
Per fortuna sembra che le INGOs stiano iniziando a confrontarsi con queste verità a casa propria. Ma se nei loro uffici di Oxford, Londra, New York o Ginevra (così come al Sud) non troveranno risposte forti e convincenti per giustificare la loro esistenza la cosa più logica sarà la loro progressiva scomparsa. (articolo di Deborah Doane, traduzione libera a cura di redazione)
È una domanda che dovrebbero porsi anche le ONG nazionali ed è una riflessione a cui dovremmo dedicare il 90% delle riunioni delle nostre reti e piattaforme varie…
scusate, qual’è la fonte del dato “dei 150 miliardi di dollari spesi in aiuti a livello mondiale, solo l’1% arrivi davvero nel sud del mondo” ?
Si tratta di un report citato alla conferenza di Bond redatto da Civicus ‘State of Civil Society 2015’ report. http://www.civicus.org/images/SOCS2015ExecutiveSummary.pdf
Tema caldo e quanto mai attuale, dobbiamo velocemente dare una risposta a tutti i livelli, le nostre coscienze non possono più aspettare. Non si tratta di annullare il fondamentale lavoro di policy, advocacy e mobilitazione, ma di richiamare una maggiore efficacia, un maggiore coraggio, una messa in gioco personale più profonda. E prima di tutto un maggiore equilibrio economico rispetto all’ efficacia dell’uso delle risorse.
Ciao.
Il tema è sicuramente interessante e complesso e condivido la necessità di riflettere in modo costruttivo su questo argomento (io penso che ci sia sempre di più una forte necessità delle ONGI anche se ora queste dovrebbero giocare un ruolo molto più politico e critico – anche e soprattutto nel nord – che tecnico).
Ma a mio parere bisogna ben presentare i dati e quello che voi avete tradotto come “solo l’1% degli aiuti arriva nel sud del mondo” è sbagliato e non vero. L’articolo dice che 1% del totale speso dai paesi OECD in aiuti allo sviluppo arriva a ONG basate nel sud (immagino per realizzare progetti)…il che è molto diverso.
Solo per dibattere su una base corretta.
Ciao
F.
Confermo la puntualizzazione che ha fatto Fabio, anche se andrebbe ulteriormente accompagnata con un altro nerissimo passaggio del testo richiamato: ‘ ‘ Il quadro è ancora più tetro quando si tratta di attività umanitarie, dove la percentuale di fondi che vanno alle organizzazioni della società civile locale scende al 0,4% nel 2012 e al 0,2% nel 2014 ‘ ‘. Serve quindi un grandissimo ripensamento, perchè è evidente che bypassare le organizzazioni della società civile locale non può portare a efficienza. Vorrei tanto riuscire a ripescare un altro importante studio, ora ahimè non lo trovo più, che portava altri dati interessanti da confrontare, grosso modo così semplificati: fatto 1 il costo di un piatto di riso acquistato e preparato da un cittadino locale di un Paese del Sud del mondo, tale costo diventa 2 se la stessa cosa la fa una ong locale o una organizzazione missionaria già sul posto, 3 se lo fa una piccola associazione del nord ma stabilmente presente sul posto, 4 se la fa una piccola associazione del nord ma senza base, 5 se lo fa una Ong del Nord attraverso espatriati, 7 se lo fa una grande Ong internazionale dopo mesi di campagne sui media che comprerà un piatto di riso, 8 se lo fa una grande Ong attraverso fondi comunitari o statali e un anno di progettazione prima e un anno di rendicontazione post, 10 se lo fa una grande agenzia internazionale delle UN.
C’è di che riflettere….