Quando nel 2009 il partito conservatore di Cameron si è convertito a sostegno della cooperazione allo sviluppo, rendendo cosi possibile l’aumento del budget inglese degli aiuti, molti attivisti delle ONG hanno esultato definendo l’evento un grande successo. Dopo anni in cui la cooperazione sembrava appannaggio esclusivo dei cattolici e della sinistra, lo sviluppo era diventato finalmente un tema mainstream. A esclusione di poche frange della destra, nel Regno Unito è emerso un ampio consenso sul fatto che tutti si dovessero mobilitare per combattere la povertà globale. A uno sguardo più attento al documento che definisce l’agenda dei conservatori nella cooperazione (One World Conservatism- the Conservative party’s new international aid agenda) si legge che il capitalismo e lo sviluppo sarebbero stati il regalo fatto della Gran Bretagna al resto del mondo. “Oggi – continua il documento – abbiamo l’opportunità di rinnovare quel dono per aiutare i paesi poveri a innescare crescita e sviluppo“. Chi conosce l’espansione globale del capitalismo sotto l’impero britannico, sa bene che il termine “sviluppo” ha significato qualcosa di molto diverso – anzi praticamente l’opposto – a quello per cui gli attivisti anti-povertà hanno lavorato per diversi decenni.
Tornado indietro al periodo d’oro dello “sviluppo”, dal 1950 fino agli anni 1970, il termine era stato strettamente associato con i governi di liberazione nazionale come quelli di Nkrumah in Ghana e Nyerere in Tanzania, che hanno combattuto la povertà, le privazioni e la dipendenza mettendo in campo un forte intervento statale.
Più avanti negli anni l’attivista ugandese Yash Tandon è andato oltre, affermando che lo sviluppo per lui significava “la lotta dei popoli per la liberazione da strutture di dominio e di controllo prevalentemente sulle politiche e sulle risorse nazionali“. In altre parole, lo sviluppo è stato visto come un processo di rottura con lo sfruttamento coloniale e il trasferimento di potere sulle risorse dal primo al terzo mondo. Per questi attivisti, lo sviluppo ha rappresentato una lotta rivoluzionaria sul controllo delle risorse mondiali.
Ma il vero sventramento del concetto di sviluppo e del suo contenuto politico non è certo qualcosa che è avvenuto in una notte. Nel 1990, dopo anni di governi di destra nel Regno Unito e negli Stati Uniti e lo sdoganamento dell’idea che la povertà fosse una responsabilità individuale, il bilancio degli aiuti ha visto una riduzione a livelli storicamente più bassi. L’ONU ha inventato pochi anni dopo la nuova categoria “dell’estrema povertà” per indicare coloro che davvero meritavano la nostra attenzione, separando così l’idea della povertà dalla disuguaglianza.
Sono gli anni della visione “non-politica” dello sviluppo in cui la povertà è stata affrontata a livello micro, scavando pozzi e fornendo fertilizzanti, per esempio. La promessa era quella di far uscire i più poveri dalla loro condizione in modo che anche loro potessero condividere il benessere dell’economia globale.
Da qui in poi quella dello “sviluppo globale” è diventata una proposta molto diversa. Il presupposto è che l’economia globale risolverà la povertà, nei paesi in via di sviluppo è quindi necessario far entrare più rapidamente possibile le politiche neoliberiste. In quest’ottica l’aiuto è stato importante perché significava utilizzare denaro pubblico per facilitare la costruzione di mercati “liberalizzati” necessari per far fiorire democrazia e prosperità. La cooperazione allo sviluppo è diventata quindi una possibilità per la destra politica di estendere il neoliberismo economico in quelle parti del mondo non raggiungibili da altre forme d’intervento.
Oggi siamo arrivati al punto in cui i soldi degli aiuti inglesi per la cooperazione vengono spesi per sostenere investimenti privati in El Salvador, per costruire appartamenti di lusso e hotel in Kenya o sulla spiagge delle Mauritius. I fondi della Banca Mondiale finanziano alberghi a cinque stelle in Ghana in collaborazione con uno degli uomini più ricchi del mondo. L’ultimo trend è quello di utilizzare gli aiuti della cooperazione per favorire un miglior ambiente d’investimento in Africa per attori del calibro di Diageo, Coca-cola e SAB Miller, o per sostenere l’istruzione privata in Pakistan.
Sulla scia del crollo finanziario, dopo che i maggiori responsabili della crisi economica se la sono svignata, è ormai chiaro come il neoliberismo e la globalizzazione abbiano fatto star meglio solo una piccola percentuale di persone, mentre i mezzi di sussistenza di molti altri – per non parlare delle risorse naturali – siano ormai erosi . Ironia della sorte, una delle aree della società più immune a questa erosione è proprio lo sviluppo, dove il neoliberismo è ancora dominante ed ha effettivamente accresciuto la sua forza.
Il concetto di sviluppo, e la lotta alla povertà, sono stati separati da qualsiasi concezione di politica o di potere; un malinteso fondamentale di cosa sia realmente la povertà. La povertà non è semplicemente la differenza tra vivere con 1,20 dollari e 1,40 dollari al giorno. Si tratta di mancanza di potere sulle risorse di cui si ha bisogno per vivere una vita dignitosa – cibo, acqua, accesso alle cure sanitarie, istruzione. Se una persona – o una multinazionale – li controlla, questo significa che gli altri non lo fanno.
La povertà ha radici profondamente politiche. Nonostante quello che ci è stato ripetutamente detto dall’élite politica, non è possibile liberarsi della povertà se una piccola minoranza gode di ricchezze oltre ogni immaginazione. In particolare, il potere che le grandi imprese esercitano oggi è incompatibile con una società democratica in grado di risolvere i problemi del mondo. In uno scenario simile, l’industria dell’aiuto è destinata a crescere sempre più e la cooperazione sarà appannaggio di ONG e grandi aziende private. E’ tempo di prendere posizione contro questa deriva quanto mai sinistra.
(di Nick Dearden direttore di Global Justice Now, pubblicato su the Guardian, tradotto liberamente dalla redazione)