“Povertà”, “Aiuto”, “Bisogno”, sono state alcune delle parole chiave utilizzate per comunicare la cooperazione allo sviluppo negli ultimi 40 anni. Eppure qualcosa inizia a non funzionare più. L’opinione pubblica sembra saturata dal racconto “terzomondista” e inizia a reagire negativamente ai messaggi comunicativi che migliaia di ONG e associazioni predispongono quotidianamente per cercare sostegno e fondi per le proprie attività. L’aiuto allo sviluppo e la cooperazione sono viste come un cosa importante che però non funziona, i sostenitori si scoraggiano e cresce la voce dei detrattori. In Europa e negli Stati Uniti si registra un continuo declino del supporto dell’opinione pubblica rispetto ai temi dello sviluppo globale e della lotta contro la povertà. Sono questi alcuni dati di partenza di uno studio recentemente realizzato da Weber Shandwick, agenzia di comunicazione globale specializzata in engagement, strategie di marketing e storytelling. La ricerca, denominata “The Narrative Project”, è stata commissionata da una decina di grandi charity internazionali e realizzata tra marzo e agosto 2014. Obiettivo: Trovare le nuove parole per raccontare il futuro della cooperazione e dello sviluppo globale.
Il gruppo di lavoro ha condotto un audit sugli strumenti comunicativi di decine di ONG internazionali studiando il dialogo esistente con il proprio pubblico di riferimento. A seguito di una consultazione di leader nel settore dello sviluppo, scienziati sociali, linguisti, consiglieri politici, ricercatori e opinion leader hanno stilato una serie di possibili messaggi alternativi per raccontare il nostro settore. Li hanno sottoposti attraverso interviste individuali a oltre 6000 persone di Regno Unito, Stati Uniti, Francia e Germania, con l’obiettivo di misurare il potere persuasivo dei vari temi, in base alla loro capacità di cambiare gli atteggiamenti e motivare le persone ad agire per sostenere lo sviluppo.
Parole come “Autonomia”, “Partnership”, “Progresso” avrebbero un potenziale comunicativo maggiore soprattutto nei confronti dei così detti “swing”, gli indecisi, quella parte di opinione pubblica che non ha una vera e proprio opinione in merito. Anche gli scettici “skeptics”, si farebbero convincere di più se sentissero parlare di “emancipazione delle donne” piuttosto che di “lotta alla povertà”.
Si può cambiare il racconto?
Da alcuni anni ormai le organizzazioni che operano nella cooperazione sono alla ricerca di una nuova narrazione del proprio lavoro anche a fronte dei grandi cambiamenti dello scenario internazionale. Come cambiare la narrazione pubblica sullo sviluppo globale e la povertà per favorire una comprensione più positiva dei problemi e allargare il pubblico di riferimento? Questa la domanda che cerca risposta soprattutto tra gli operatori della comunicazione.
Recentemente il dibattito attorno allo sviluppo globale è diventato sempre più negativo e cresce lo scetticismo, i media infatti tendono sempre più a enfatizzare ciò che non funziona e ciò che viene sprecato. La base dei sostenitori attivi si sta restringendo e si fa fatica a raccontare il cambiamento positivo in atto in diversi paesi per non danneggiare il fund-raising che, secondo la scuola classica, richiede drammaticità e esasperazione per sollecitare alla donazione.
Proprio per trovare un nuovo approccio è nato il progetto “The Narrative”, alcuni risultati sono sorprendenti. Innanzitutto la scoperta che il pubblico “engaged” è molto piccolo. Solo il 30% in media ha una vaga conoscenza della cooperazione ed è interessato a leggere informazioni a riguardo. Il pubblico degli “indecisi” è invece ampissimo e se raggiunto nel modo giusto, potrebbe raddoppiare la base di sostegno allo cooperazione internazionale.
Sono quattro i nuovi concetti che hanno catalizzato l’attenzione degli intervistati e che vengono presentati come i quattro concetti chiave su cui basare una nuova comunicazione: “Autonomia”, “Valori condivisi”, “Partnership” e “Progresso”.
Ecco come hanno reagito gli intervistati suddivisi nelle tre categorie (A favore, Indecisi, Scettici):
Lo studio si chiude con una serie di raccomandazioni ed esempi di comunicazione per raccontare storie, progetti e sfide delle nostre organizzazioni.
Infine le 7 cose da non fare mai più:
- Pensare che i soli risultati dei nostri progetti possano convincere la gente a sostenere la cooperazione
- Utilizzare il pietismo e indurre il senso di colpa nell’opinione pubblica rispetto alla povertà
- Usare la parola “Aiuto”
- Iniziare mai una storia partendo dal “Problema”
- Comunicare spazi temporali troppo lunghi per raggiungere i risultati (entro il 2030, fra 15 anni, ecc)
- Minimizzare il problema della corruzione
- Giustificare la cooperazione allo sviluppo con problemi di sicurezza nazionale e contrasto all’immigrazione.
Leggi un estratto della ricerca
Grazie per la condivisione, interessante ricerca. In effetti alcune organizzazioni che da tempo utilizzano questi concetti non hanno subìto una crisi particolare nelle entrate.
Onestamente non so quanto queste raccomandazioni siano valide per il pubblico italiano, in particolare l’aspetto della prevenzione dell’immigrazione fa molta presa soprattutto in questo periodo. Mi sembra che Regno Unito, Francia e Germania siano più maturi nel dibattito sulla cooperazione internazionale, in Italia c’è ancora molto da fare soprattutto in termini di educazione.
Grazie per la diffusione dell’interessante ricerca. Probabilmente i risultati sono conformi all’opinione pubblica dei paesi coinvolti.Da anni sappiamo che l’Italia è un paradosso: maggiore diffusione dei temi della lotta alla povertà tra l’opinione pubblica (vedi campagna MDG) e ultimo posto fra i paesi cosiddetti “donatori”.Oltre a interrogarsi sull’efficacia dei messaggi per raccogliere sostegno e fondi,sarebbe utile chiedersi quale sia l’obiettivo effettivo cui ci si ispira facendo cooperazione. Il dibattito in quei paesi è certamente più evoluto riguardo il senso stesso e i limiti registrati in ormai più di 30 anni di “aiuto” allo sviluppo. Per questo diventa sempre più vista positivamente la proposta di progetti volti a obiettivi più concretamente efficaci o comunque capaci di creare processi virtuosi, proposti da soggetti capaci di attivare relazioni dirette tra territori e popolazioni.
Articolo molto interessante. Della questione terminologica in cooperazione se ne parla da anni e da non più addetto ai lavori mi sembra ci siano stati enormi avanzamenti e un maggiore consenso soprattutto sui termini e le espressioni da evitare perché culturalmente superati. I cancri letterari del sottosviluppo, del paternalismo, della povertà, ecc… sembrano essere in gran parte alle nostre spalle. Qualche dubbio resta sulla pratica degli interventi. Bisogna persuadere il donatore con parole adatte, ma dal momento in cui ha messo mano alla tasca, questo non ha più alcun riscontro diretto del suo gesto e probabilmente neanche gli interessa più di tanto. Ecco, quindi, l’inghippo che è ancora ben lontano dall’essere risolto. Tra letteratura comunicativa e pratica dell’azione esiste una divergenza così grande…
Ciao a tutti, sono un giornalista che lavora per le ong (Aifo) e mi occupo spesso del tema di come raccontare il lavoro delle cooperazione internazionale.
Il mondo del giornalismo ha una sua logica mediale che spesso cozza con i tempi del racconto di quello che fa un’ong e una ricerca di “storie che toccano” di natura spesso discutibile. Esiste anche un genere di giornalismo, il development journalism, che si pone il tema di un racconto diverso
https://nicolarabbi.wordpress.com/2014/05/10/comunicare-lo-sviluppo-un-genere-di-giornalismo/
Ma il problema è anche nostro, organizzativo, visto che l’attenzione media che le ong dedicano alla cura nel loro materiale di comunicazione è ancora bassa.
https://nicolarabbi.wordpress.com/2014/06/05/come-raccontare-un-progetto/
Per poter avere un racconto diverso, un’immagine diversa che rispecchia la cooperazione, occorre anche investire in questo campo, già nei progetti che si presentano.
https://nicolarabbi.wordpress.com/2015/01/12/se-potessi-raccontare-storie-come-nuto-revelli/