Dopo aver circumnavigato l’Africa con la portaerei Cavour trasformata per l’occasione in fiera galleggiante delle tecnologie militari e della sicurezza italiane ecco che il Sistema Italia riparte in missione alla volta del continente nero. Parte domani per Angola, Mozambico e Congo Brazzaville una delegazione guidata dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, di cui faranno parte numerose aziende italiane. Il tour è organizzato da Palazzo Chigi e dal ministero dello Sviluppo economico, in collaborazione con la Farnesina e con il supporto della rete diplomatica nei tre paesi. Inoltre, fa parte degli sforzi di Sistema previsti dalla cabina di regia per l’internazionalizzazione delle nostre imprese, coordinata dal ministero degli Esteri. L’iniziativa, peraltro, era stata annunciata dal vice ministro degli Esteri, Lapo Pistelli, nel suo intervento di apertura di lavori di “Italia-Angola, le opportunità di una partnership economica”, alla Farnesina. I tre paesi che la missione toccherà rappresentano oggi solo l’undici per cento dell’export italiano in Africa sub-sahariana, per un controvalore di circa 600 milioni di euro: di questi, oltre la metà riguarda l’Angola, il maggiore tra i tre mercati, con una popolazione di 20 milioni di abitanti e un Pil nominale che nel 2013 ha sfiorato i 132 miliardi di dollari. La crescente diversificazione della struttura socio-economica dei tre Paesi offre crescenti opportunità in una vasta gamma di settori, dai beni di consumo, alle costruzioni, dalla meccanica strumentale ai metalli fino al food and beverage.
Ci sarà anche l’amministratore Delegato di Sace, Alessandro Castellano, nella delegazione governativa. In quest’occasione, si legge in una nota, “Sace annuncerà nuove operazioni e iniziative nei tre Paesi oggetto della missione, ancora relativamente inesplorati ma a elevato potenziale per le imprese italiane.
Secondo il viceministro del Mise Carlo Calenda ci sono tutte le premesse per capitalizzare le relazioni tra Italia e Mozambico in agroindustria, infrastrutture, trasporti, turismo e telecomunicazioni.“Il governo intende fare del Mozambico il test su come si affronta un mercato in Africa, intende farne il centro della nostra attività”, ha detto Calenda al forum istituzionale Italia-Mozambico organizzato per la missione di sistema banche-imprese a maggio del 2014. “Penso che ci siano tutte le buone caratteristiche e le possibilità per farlo diventare un caso di straordinario successo”, ha aggiunto.
Come ha spiegato Calenda, in Mozambico è tutto da costruire: dalle infrastrutture alla catena distributiva, all’agroalimentare. Delle 90 imprese italiane presenti in Mozambico, una trentina sono grandi aziende. Da quanto si legge sul sito dell’Ambasciata italiana a Maputo, sono presenti in Mozambico Eni, Saipem, API Nova Energia, Maccaferri, Avia, CMC, Gruppo Trevi, Salcef, Tenaris, Techniplan, Gruppo Cremonini, Sfir, Igo Sammartini, Verdemare, Gruppo Mazzitelli Sviluppo Immobiliario, Ignazio Messina e Leonardo Business Consulting, tra gli altri.
Nell’ambito del “Programma Africa” di Sace (che ha aperto un proprio ufficio a Johannesburg), c’è stato un atteggiamento rassicurante nei confronti del Mozambico con un plafond di 50 milioni di dollari in 5 anni. Simest, invece, ha concluso un accordo di collaborazione con il Centro mozambicano di Promozione degli Investimenti (Cpi). L’ambasciata italiana ha aggiornato la pubblicazione “Fare affari in Mozambico” con informazioni pratiche per le imprese italiane interessate ad esplorare il mercato mozambicano. Per sottolineare opportunità e successi dell’Italia in Mozambico, il viceministro allo Sviluppo economico sottolinea che “Eni sta facendo uno dei più grandi investimenti al mondo sul gas in Mozambico”. Con questa operazione l’Italia potrebbe consolidare la propria posizione di primo investitore straniero nel Paese.
Mentre ho trovato sbagliato e grave andare in giro a fare affari con le navi militari a vendere armi, non trovo nulla di riprovevole nel cercare di fare affari con l’Africa con le modalità usuali del mondo profit.
Salvo denunciare forme di neo colonialismo o mancato rispetto dei diritti umani, dell’ambiente, dei produttori locali etc. Principi però che valgono per qualsiasi investitore non solo per quello italiano.
Quello su cui bisogna vigilare è che la Cooperazione Italiana, che ha ben altre finalità,sia piegata a quegli interessi.
Giancarlo Malavolti
Ma perché il nostro primo ministro non cerca di risolvere prima di tutto i problemi delle imprese italiane in Italia (sgravi fiscali “reali”-incentivi-aiuti finanziari”reali” attraverso le banche che erogano “relamente”prestiti/finanziamenti agevolati…..)sembra che il nostro primo ministro con questi viaggi in giro per il mondo in cerca di “opportunità”voglia certificare con “i fatti”che in Italia non può”garantire” opportunità imprenditoriali alle nostre imprese…e non prendiamoci in giro parlando di internazionalizzazione…la verità e che le imprese italiane sono ormai in una “camera a gas:I’Italia” e non vedono l’ora di uscire/scappare dalla camera a gas in cui sono rinchiuse
In Italia le banche non danno più soldi all’industria perché i loro ritorni economici se li giocano sui risparmi degli italiani.
I nostri grandi imprenditori hanno da sempre usato i soldi dello stato per ingrandirsi , sviluppare lavori e poi mettere tutti in cassa integrazione a spese dello stato, ovvero degli italiani.
Ora quanto ci costerà questa avventura Africana ? Perché i grandi gruppi industriali per muoversi vorranno essere finanziati, e chi li finanzierà ?
Ci sono piccole aziende che si stanno muovendosi da sole per cercare mercati di lavoro all’estero ma si auto finaziano mentre le partecipate creano posti di lavoro per i parenti di coloro che da sempre hanno gestito la politica e gli affari.
L’Africa è il futuro del mondo con le sue immense ricchezze. sfruttate dai francesi , inglesi tedeschi spagnoli , noi andiamo in Africa a portare soldi e tornare a casa a calci nel sedere.
Il governo dovrebbe ridurre la pressione fiscale alle aziende in Italia per renderle competitive , punire gli evasori in modo esemplare, coloro che portano all’estero i loro guadagni ed usano il “nero” per aumentare i costi fittizi. Bisogna ridare a questo paese la voglia di crescere per resistere a tutti gli attacchi dell’Europa.
“L’Africa moderna pare avere molta difficoltà a rivendicare una modernità associata al commercio degli schiavi e alla colonizzazione; difficoltà assunta dalla totalità di un sistema pré-coloniale, a chi l’Africa rimprovera due sconfitte storiche”. “Gli africani rimangono persuasi che devono essere gli stranieri a prendersi in carico il loro destino”, che “le pretese civiliste dell’Occidente non si fermano con le indipendenze”.
Pertanto, “l’Africa risente lo sviluppo come una ingiunzione”, “gli sforzi di sviluppo sono percepiti come confessioni d’impotenza, d’inferiorità culturale o razziale”. “L’Africa nera rimane profondamente umiliata dall’idea stessa di sviluppo”, considerando che è “un compito che rileva legittimamente degli obblighi del colonizzatore”. La tecnica rimane percepita come “la cosa dell’uomo bianco”, che viene usata più o meno con disprezzo, senza nemmeno cercare di prenderne possesso.
Il sistema dello “sviluppo”, dimensione strutturale dell’economia post-indipendentista, ha fatto solo che rinforzare queste tendenze: “anni di tele-alimentazione, di tele-finanziamento, di diverse appropriazioni indebite, sembra che abbiano, in maggioranza convinto i borghesi africani che il loro denaro non può essere utile allo sviluppo del loro continente: questo è il ruolo storico devoluto del vecchio colonizzatore”. “Gli Africani che risentono il loro ritardo come una carica implicita di retroversione in confronto all’Occidente e che si fortificano dietro ai loro valori culturali devono sapere che cosi facendo, si tendono una trappola dove sono gli unici a soffrire ”.
Questo rinnego dello sviluppo decorre direttamente dal sistema ideologico delle post-indipendenze. I “miti post-indipendentisti” si sono costituiti in pieno periodo delle indipendenze. Il complesso della colonizzazione ha portato le élite africane a buttare il bambino dell’indebitamento tecnologico nel bagno dell’imperialismo. Le critiche verso l’Occidente, il terzo mondismo e critiche marxiste in particolare, con il rimbalzo sulle teorie della negritudine, hanno alimentato il pensiero ideologico che ha permesso di dare tutte le colpe e responsabilità all’Occidente, di mettere in piedi il sistema di dipendenza economica e la sopra valorizzazione culturale. Il relativismo culturale stermina l’inversione simbolica del rapporto di dipendenza. Permette di invocare un diritto alla differenza che “si manifesta con una specie di determinazione ad essere soltanto se stessi e nient’altro, e sopratutto a non vedere nessun inconveniente, nonostante il traguardo più grande in materia di auto riabilitazione sia di indiavolare le nuove idee, ed erigere la mendicità nel principio dello sviluppo e di liquidare gli ostacolisti”.
Anche l’Occidente ha la sua parte di responsabilità. La malizia delle élite africane ha incontrato un sostegno, esplicito o implicito da parte dei paesi occidentali, attraverso il pianto dell’uomo bianco o la logica internazionale che ha istituzionalizzato lo “sviluppo”. Senza nemmeno parlare del sostegno politico a regimi dubbiosi con la scusa di guerra fredda, “gli specialisti dello sviluppo, sbranati dalle loro stesse passioni, accecati dai freni della moda, hanno praticato, a sinistra come a destra, il servilismo, il paternalismo o optato per la scappatoia tangenziale quando si trattava di veri dibattiti sul sotto sviluppo dell’Africa”.
Ora, il pianto dell’uomo bianco è passato. L’Africa avrà capito che [il terzo mondismo] risponde essenzialmente ad un bisogno di liquidare i contenziosi derivati della decolonizzazione e della guerra fredda, per permettere ad una Europa (finalmente riconciliata con la civilizzazione tecnica) di affrontare i secoli futuri con vestiti nuovi ? Tutto porta a credere il contrario. In ritardo di tre lunghezze, come di consuetudine, l’Africa non sembra capire le profonde implicazioni della burrasca che smuove l’Occidente in questo momento, e persiste nel lanciare appelli di aiuto in direzione dell’Europa occidentale, non solo determinata a terzo mondizzare una Europa centrale disgustata dal socialismo sovietico, ma decisa d’ora in poi a considerare l’aiuto allo sviluppo come un semplice gesto di carità. La questione è chiaramente posta: “l’Africa è finalmente condannata a sbrigarsela da sola. Lo dobbiamo davvero deplorare?”
L’attuale crisi dimostra che “i miti post coloniali creati dalla generazione delle indipendenze hanno raggiunto il loro massimo rendimento in quanto fattori di regolazione sociale”. “La lista delle interruzioni socio-economiche attualmente percepibili in Africa è lunga (…). Il crollo degli abituali supporti economici di una società essenzialmente combinatrice, dora in avanti segata alla base, installa ovunque una angoscia polimorfa, pesante, piena di minacce per il futuro immediato. (…) Le sorgenti “moderni” di alimentazione e di rigenerazione delle solidarietà atomizzate sono quasi esauste”. “Il decennio 1990-2000 è stato sanguinoso in Africa”. “E’ difficile credere che i fatti accaduti rimangono senza effetto sulle mentalità. (…) Il tutto è di sapere quanto tempo ci vorrà per fare scattare una sana rivoluzione sociale in tutto il continente”.
“Di fronte ad un Occidente sbarazzato della sua cattiva coscienza nei confronti dei sotto sviluppati, forse l’Africa ha una chance di comprendere che il diritto ad essere se stessa è il riscatto di un lungo e paziente sforzo di vitalizzazione e di rivitalizzazione del patrimonio culturale attraverso l’integrazione intelligente di nuovi elementi, stranieri e non”. Esalto una Africa che assume le proprie responsabilità, che pratica e senza complessi prestiti all’occidente con un “opportunismo scientifico” uguale a quello del Giappone, che arriva infine a sorpassare “l’assenza crudele del progetto di società coerente”.
Vorrei essere il porta parole “di una generazione obbiettivamente priva di futuro, che ha interesse a lavorare sul crollo dei nazionalismi stretti delle indipendenze e al futuro di una grande Africa, forte e dignitosa”. E’ proprio cosi che bisogna leggere questo libro. Scova nei tabù e, è sano in questo senso. Ma una lettura troppo rapida non dovrebbe fare pensare ad uno stile dell’afro pessimismo dipinta dai saloni parigini. Anche perché nel libro la potenza di analisi delle teorie della dipendenza non viene negata, ansi viene rimpianta dal fatto che sia stata svuotata della loro sostanza. Inoltre, perché in quanto critica politica interna, questo libro rappresenta l’emergenza di una nuova classe politica che vuole porre fine ad un sistema post indipendentista perverso e moribondo. In questo c’è qualcosa di sano che non si trova nel discorso ultra liberale occidentale, anche se, ancora una volta, i discorsi dell’Occidente possono essere utili negli ambienti locali africani.