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La nuova cooperazione parla la lingua del business

Equity, loans, blending, capital risk, leverage, bond, mezzanine. Questi sono solo alcuni dei termini del mondo finanziario che sembrano destinati a entrare nel vocabolario della cooperazione allo sviluppo.  In questo periodo di passaggio dagli Obiettivi del Millennio fissati nel 2000 alla nuova agenda per lo sviluppo sostenibile in arrivo per il 2015 i policy maker guardano infatti all’economia e alla finanza; il concetto mainstream del momento è “Gli aiuti pubblici allo sviluppo non bastano per ridurre la povertà nel mondo, servono strumenti finanziari che coinvolgano il settore privato”.
Da un lato l’Unione Europea lo ha già messo per iscritto nei suoi documenti programmatici del periodo 2014-2020 e si appresta ora a mettere in campo strumenti tecnici e finanziari ad hoc. In Italia si prepara la strada con la riforma della legge 49 sulla cooperazione che apre al settore privato e al coinvolgimento degli istituti finanziari. Il vice Ministro Pistelli si spinge oltre ipotizzando la nascita in tempi brevi di una Banca Italiana per lo Sviluppo in seno alla Cassa Depositi e Prestiti, entità che potrebbe rappresentare lo strumento finanziario adatto a mobilitare gli investimenti pubblico privato.

 

Ma di cosa stiamo parlando esattamente? Come funzionerebbe quest’alleanza tra governi, aziende e finanza per sconfiggere la povertà? C’è davvero un ruolo anche per la società civile e le ONG dentro questo disegno?

 

Pubblichiamo di seguito un interessante articolo pubblicato recentemente da Afronline.org che può aiutaci a capire il fenomeno e farci un’opinione a riguardo.

 

Cooperazione allo sviluppo dell’UE: Benvenuti nell’era del Blending

 

Alla vigilia dell’incontro a Firenze dei ministri europei dello sviluppo nell’ambito della Presidenza italiana dell’UE, Afronline.org ha pubblicato un dossier sulla nuova narrativa della cooperazione allo sviluppo dell’UE che si concentra sul portare il settore privato al centro delle sue strategie di sviluppo. Questa rivoluzione silenziosa può essere riassunta in una sola parola: blending.

 

E’ una rivoluzione silenziosa, ma irreversibile, scattata circa sette anni fa alla vigilia della crisi dei subprimes, ed è come se Bruxelles avesse fiutato l’aria pessima che stava tirando sull’economia mondiale e i danni devastanti che questa crisi avrebbe provocato per le casse degli Stati membri dell’Unione, con il rischio di intaccare uno dei suoi più grandi successi in materia di politica estera: la cooperazione allo sviluppo.

 

Di fatti, nonostante l’Unione Europea sia sempre rimasta il primo donatore al mondo, le statistiche dell’Osce hanno poi dimostrato cali significativi degli aiuti pubblici allo sviluppo (Aps) dei paesi europei tra il 2010 e il 2012, passati dallo 0,46% del Pil allo 0,42%. Percentuali ben lontane dagli impegni presi dall’Ue nel 2005 di raggiungere entro il 2015 la fatidica soglia dello 0,7% fissata negli Obiettivi del Millennio.

 

Secondo CONCORD, la Confederazione europea delle ONG umanitarie e di sviluppo “gli Stati membri dovrebbero mobilitare ulteriori € 41 mln per raggiungere l’obiettivo”. Si tratta di un segreto di pulcinella, ma a Bruxelles tutti sanno che gli aiuti pubblici non sono sufficienti per sradicare la povertà nei paesi in via di sviluppo. Ecco perché nuove forme di finanziamento entrano in gioco, che coinvolgono il settore privato, in una parola: blending.

 

Un mix di grants e loans

 

Il blending è un meccanismo che lega un componente di sovvenzione a dono del bilancio dell’UE, del Fondo europeo di sviluppo (FES) e degli Stati membri, con prestiti o equity di istituti di proprietà pubblica e finanzieri privati, accreditati dalla UE.

 

La Commissione europea punta molto sul blending per la sua capacità di fare lievitare i fondi disponibili partendo da una piccola componente a dono, che consenta di generare un effetto moltiplicatore attraverso i prestiti, così da permettere all’Europa di ridurre il budget destinato direttamente alla cooperazione. Ciò è in linea con il cosiddetto “fare di più con meno”, la strategia dell’UE è stato costretto a causa di tagli di bilancio.I fondi ottenuti sono utilizzati dalle istituzioni finanziarie per realizzare azioni di sviluppo su iniziativa di imprese e governi locali.

 

Questo può avvenire solo dopo la valutazione da parte di un organismo tecnico composto da istituzioni finanziarie (e presieduto dalla Commissione europea o da istituzioni finanziarie di sviluppo), e approvati dalla Commissione europea e dagli Stati membri in un operation board. Al di sopra, un board strategico presieduto da UE e Stati membri che fornisce la direzione politica sulla quale dovrebbero essere assegnati i grant. I progetti finanziati sono regolati all’interno di otto strumenti regionali, le cosiddette “Eu blending facilities”: Africa, America Latina Caraibi, Pacifico, Asia, Asia Centrale, Balcani occidentali e regione del Vicinato (Europa dell’Est, Nord Africa e Vicino Oriente). La componente a dono può essere utilizzata per diminuire i tassi d’interesse dei prestiti contribuendo in tal modo a ridurre l’indebitamento del Paese beneficiario.

 

I sostenitori del blending sottolineano altresì come i grants incentivino l’accesso del settore privato, in particolar modo le piccole e medie imprese, verso mercati rischiosi coprendo i rischi di capitale. Ancora, tra i vantaggi sbandierati si evoca la capacità di rafforzare il coordinamento tra donatori ed istituzioni finanziarie a beneficio dell’efficienza dell’aiuto allo sviluppo dell’Ue, e quindi della lotta contro la povertà, il vero obiettivo della Commissione europea.

 

Il Blending è parte dell’Agenda for Change lanciata dall’UE nel 2011, che definisce un approccio più strategico “per sviluppare nuovi modi per coinvolgere il settore privato, in particolare al fine di sfruttare l’attività e le risorse del settore privato per la realizzazione di beni pubblici”. L’Ue “dovrebbe esplorare grant e meccanismi di condivisione del rischio per catalizzare partenariati pubblico-privati e investimenti privati”.

 

Più di recente, la Commissione Europea ha adottato un documento politico – la cosiddetta “comunicazione” – che conferma le nuove ambizioni dell’UE con i suoi paesi partner. “Il settore privato fornisce circa il 90 % dei posti di lavoro nei paesi in via di sviluppo, ed è quindi un partner essenziale nella lotta contro la povertà”, sottolinea il documento. “E ‘necessario anche come investitore nella produzione agricola sostenibile se il mondo vuole davvero soddisfare la sfida di nutrire 9 miliardi di persone entro il 2050. In molti paesi in via di sviluppo, l’espansione del settore privato, in particolare micro, piccole e medie imprese, è un potente motore di crescita economica oltre che la principale fonte di creazione di posti di lavoro”.

 

Sino ad ora, i doni canalizzati nel blending sono stati utilizzati per coprire investimenti diretti (41% dei grants tra il 2007 e il 2012), l’assistenza tecnica (32%) e il contributo in conto interessi (19%). A conferma delle ambizioni della Commissione europea, un rapporto pubblicato dallo European Network on Debt and Development (Eurodad) sostiene che «i grants allocati attraverso il blending sono passati da 15 milioni di euro nel 2007 a 490 milioni nel 2012», con oltre 300 progetti approvati tra il 2007 e il 2013.
La stessa Commissione afferma che a fronte di 1,2 miliardi di euro di aiuti provenienti dal budget multilaterale Ue dagli Stati Membri e dal Fondo Europeo per lo Sviluppo (Fes), si sono ottenuti dalle istituzioni finanziarie prestiti per circa 32 miliardi di euro, finanziando progetti per oltre 43 miliardi.
L’intesse suscitato da questo strumento è tale che «in futuro potrebbe coprire fino a un terzo degli aiuti allo sviluppo», assicura Florian Kratke, policy officer allo European Centre of Development Policy Management (Ecdpm), influente think-tank con sede a Bruxelles con una forte esperienza nel campo della cooperazione allo sviluppo.

 

di Joshua Massarenti e Evelina Urgolo – Afronline.org (traduzione a cura di redazione)
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